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Vi spiego cosa c’è nella mente di un terrorista

bellicini, nella mente di un terrorista,

I recenti attentati sul suolo europeo spingono l’Occidente a porsi alcune fondamentali domande: cosa scatta nella mente di ragazzi nati e cresciuti in Europa da spingerli a uccidere indiscriminatamente il maggior numero possibile di persone? Dove ha sbagliato il modello di integrazione del Vecchio continente? Come mai ci troviamo di colpo invischiati in una nuova Crociata contro l’Islam? E perché proprio l’Islam?

A queste e ad altre domande tenta di rispondere, ricorrendo alla psicanalisi, il libro Nella mente di un terrorista (Einaudi, Le Vele), recentemente arrivato sugli scaffali, curato da Omar Bellicini, redattore italio-algerino esperto di comunicazione per l’Arma dei Carabinieri e Luigi Zoja, psicanalista di fama mondiale.

Ed è proprio Omar Bellicini a darci qualche informazione in più su di un tema sempre più dibattuto nei comizi politici e nei salotti televisivi ma, per paradosso, così poco analizzato da un punto di vista scientifico.

Bellicini, anche i recenti arresti legati all’attentato nella metropolitana di Londra confermano il dato sulla giovane età dei terroristi. Come mai il Califfo ha presa sopratutto sui più giovani?

Si può parlare, a mio avviso, di un concorso di fattori. In primo luogo, va considerato un aspetto che ha a che vedere con i canali di comunicazione dell’Isis, organizzazione che investe prepotentemente sulla propaganda via social network. Questi mezzi di socializzazione vengono impiegati soprattutto dai giovani, ed è inevitabile che siano il primo bersaglio del messaggio islamista. Ma c’è anche di più: il giovane, per sua natura, è molto più esposto alle seduzioni della propaganda. La sua psicologia, non del tutto definita, è più permeabile agli strumenti di persuasione.

Quindi, quando si parla di “lupi solitari” si sbaglia, perché gli aderenti all’organizzazione sono invece connessi alla società virtuale che è rappresentata da Facebook, Twitter e affini?

Trovo la considerazione molto opportuna. La Rete svolge un ruolo di primo piano nel favorire queste nuove forme di terrorismo. Non solo in termini di comunicazione diretta con i mandanti (questa è solo la dimensione più banale), anche in termini di accesso a una comunità che non coincide con il luogo in cui ci si trova fisicamente, ma che può essere a centinaia se non migliaia di chilometri di distanza. Magari in Siria, o nel nord dell’Iraq. C’è anche un altro problema: l’uso dei social network, quando non viene bilanciato da una integrazione vera e propria nel tessuto sociale di riferimento, può anche essere uno strumento che nega l’inserimento e lo sviluppo delle relazioni, fragilizzando ancora di più i giovani.

I giovani passano il proprio tempo in un ‘non-luogo’, quello di Internet, che loro però figurano come casa loro: in questo modo è come non avessero mai lasciato i Paesi di provenienza, è corretto?

Esattamente. È un discorso che chiama in causa proprio l’integrazione che, occorre ricordarlo, è nemica di quel terrorismo che si nutre di muri e distanze. Oggi, si può cambiare Paese senza mutare i propri riferimenti culturali. Restando inseriti in un ambiente virtuale molto diverso da quello in cui ci si trova. Da questo possono nascere ulteriori dissidi.

Nel libro, si trova un interessante parallelismo tra radicalizzazione e droghe. Può spiegarci nel dettaglio il collegamento?

Si tratta di un discorso che va messo in relazione con la propensione al rischio che caratterizza i giovani. Può sembrare paradossale, ma la scelta del martirio ha molto più a che vedere con le corse in macchina o con il teppismo da stadio che non con il radicalismo religioso vero e proprio. Ma non è solo un fatto legato all’età. Freud, padre della psicanalisi, parlava di un “istinto di morte” che si contrappone allo spirito di sopravvivenza e che ci riguarda tutti. Non è una cosa facile da prendere in considerazione, ma è come se la psiche avvertisse la necessità di prendere le misure della morte, di avvicinarsi al baratro, quasi per esorcizzarlo. Un mezzo per sperimentare questa necessità psicologica possono essere le droghe. Ma può esserlo altrettanto l’adesione a progetti distruttivi (e autodistruttivi) come quelli terroristici.

Più che una battaglia tra culture differenti, sembra che nella mente dei giovani simpatizzanti scattino gli stessi processi che, altrove, portano gli studenti a fare stragi nei campus…

Proprio così. Del resto, si tratta di un riferimento emerso più volte nei colloqui con il dottor Luigi Zoja. Si parla spesso di “scontro di civiltà”, ma il concetto, che pure gode di ampia fortuna, rischia di essere fuorviante. I terroristi degli attentati europei sono prevalentemente ragazzi cresciuti in Occidente, con valori di riferimento occidentali, che si sommavano a quelli delle famiglie di origine. Dunque, è assai semplicistico imputare tutto alla religione, che pure gioca un ruolo in questa tragica partita.

La psicanalisi può darci anche delle risposte sul perché, per esempio, le cellule islamiste siano spesso costituite da bande di fratelli?

Lo studio della mente non fornisce mai risposte univoche. Se lo facesse, sarebbe già un indizio che non si sta andando nella giusta direzione: la psiche è materia troppo complessa per farsi teorema o, ancora peggio, slogan. A ogni modo, è possibile fare una riflessione. Le cosiddette “band of brothers”, che presuppongono un legame orizzontale fra i membri e manifestano una presa di distanze netta con ogni forma di autorità, possono essere inserite in quel fenomeno definito “tramonto della figura paterna”. Ma attenzione: non si parla, qui, solo di padri in senso fisiologico. E’ la società contemporanea nel suo complesso a respingere ogni forma di tradizione o di imposizione dall’alto. Elementi che, in ambito psicologico, vengono incarnati proprio dalla figura del padre.

Com’è possibile che in una società in cui la figura dell’uomo è così aggressiva e prepotente da schiacciare la donna in uno stato di opprimente subalternità, la figura paterna sia in declino?

Le manifestazioni di aggressività fuori controllo sono un indice di squilibrio, e lo squilibrio deriva spesso da una reazione. Il mondo, non solo occidentale, ha assistito a una forte evoluzione dei rapporti tra i generi. Lo si deve considerare, indubbiamente, una conquista. Ma i cambiamenti repentini generano inevitabilmente dei contraccolpi. Il nuovo “maschile”, forse, non ha ancora avuto il tempo di riadattarsi e reagisce con violenza (fisica o culturale) alla nuova sfida. Vede: un fenomeno complesso come il terrorismo ha innumerevoli padri, tanto per rimanere legati al discorso. Vi sono aspetti di natura prettamente psicologica (che già sono molti) così come fattori politici ed economici. Un libro come Nella mente di un terrorista non ha la pretesa (dovrei dire la presunzione) di descriverli tutti. Vuole, però, essere un contributo. Un modo per segnalare al lettore una chiave di lettura poco considerata.

Potete forse dare un contributo, dopo aver tentato di psicanalizzare i terroristi, in merito alla loro “cura”? Cosa dovrebbe fare la società occidentale per ridurre il rischio di radicalizzazione?

Difficile parlare di “cura”, quantomeno nell’accezione che appartiene alla pratica clinica e al senso comune. Si può mirare, tutt’al più, a quella forma di prevenzione che passa da una maggiore conoscenza del problema e della sua natura. L’obiettivo deve essere quello di ridurre le distanze, di disincentivare quel clima di sospetto che favorisce indirettamente il terrorismo, alimentando la paranoia e marginalizzando ulteriormente quei soggetti che si trovano già al confine con il radicalismo. Disponiamo di una ricetta: la cultura diffusa. Da sola non basta, perché il ruolo delle forze di polizia e della magistratura resta indispensabile. Ma è essenziale. Favorirla è compito della psicanalisi, e non di meno del giornalismo. Il  compito che abbiamo cercato di dare a questo libro.

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