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Vi racconto dalla Catalogna obiettivi, furori e bizzarrie del referendum

Fino a qualche mese fa il tema dell’indipendentismo catalano era sottovalutato. In molti non consideravano la consultazione per la secessione, non era ritenuta per nulla un processo pericoloso. Alcuni nemmeno sapevano la data del referendum. Per chi non è catalano da diverse generazioni, o chi semplicemente ha vissuto in altri Paesi o regioni della Spagna, la questione del separatismo era macchiata di radicalismo, orgoglio identitario allo stato puro. Orgull català. Qualcosa cui non dare troppo peso, di fronte ai veri problemi di disoccupazione, inflazione e sicurezza che affronta la Spagna.

UN PASSO INDIETRO

Mentre la Spagna viveva per la prima volta nella sua storia a luglio del 2010 l’effervescenza dell’orgoglio di essere in finale nella Coppa del Mondo, la Catalogna cercava di riaffermare la sua identità, la sua indipendenza. Due forze popolari di segno opposto, tifare per la nazionale e rivendicare la propria differenza, che si scontrano facendo emergere le divisioni di due mondi dove le diversità si fanno più forti quando si esasperavano i toni.

LA DIFESA DELLA LINGUA CATALANA

Quell’estate, mentre l’idolo del Barcellona, orgoglio catalano, Puyol, ex capitano anche delle furie rosse, portava la Spagna in finale, i catalani subivano un gol pesantissimo: il Tribunale Costituzionale aveva annunciato l’invalidità di 14 articoli dello Status di Catalogna e ne reinterpretavano in chiave nazionale altri 27. La reazione non si è fatta attendere: da piazza Diagonal era partita una manifestazione di protesta. “Ti devo rispondere per forza in spagnolo?”, mi diceva Marcela Lunez, 21 anni, una della manifestante che voleva difendere l’indipendenza della Catalogna.

“Siamo stati sempre attaccati da Madrid ma questa è veramente la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Non tollero soprattutto il non riconoscimento degli articoli che riguardano la lingua catalana nelle scuole e nell’amministrazione pubblica”, mi diceva la giovane, sette anni fa. Marcela mi ha confessato che non avrebbe guardato la finale della Coppa del Mondo (vinta dagli spagnoli) tra Spagna e Olanda. All’epoca in piazza c’erano più di un milione di persone. All’atto finale c’era l’interpretazione musicale di “Cant dels segadors” del Orfeó Català del Palau de la Musica. Il verso principale del testo dice: “Millor un poble que es mou” (Un popolo che si muove).

BARCELLONA COME LATINOAMERICA?

Ora lo scontro è molto più critico. Luz Cortázar, giornalista e imprenditrice, fondatrice dell’osteria di successo The Juice House a Sant Antoni, abita a Barcellona da sette anni. È nipote di un basco che si è rifugiato a Caracas dalla guerra mondiale. Cortázar, invece, è arrivata in Spagna scappando dal regime chavista. Quindici giorni fa, ha sentito un “cacerolazo”, la tipica manifestazione latinoamericana di scontento, nata in Argentina negli anni ’70, che consiste nel fare suonare le pentole di notte. “Sul caso catalano non ho mai voluto pronunciarmi – spiega Cortázar -. Come venezuelana all’estero ho visto persone con la ‘verità in mano’, che però non sono mai stati nel Paese, e pensano che le cose siano bianche o nere. Per giudicare su cosa succede qui vorrei fare più analisi e ricerche, per non cadere in pregiudizi”.

UN SENTIMENTO CON STEROIDI

Secondo Cortázar, “la crescita dell’indipendentismo è stata progressiva, ma il governo centrale spagnolo le ha iniettato gli steroidi. La decisione di Rajoy di evitare a qualsiasi costo il referendum non vincolante esacerbò (anche in me stessa) il sentimento di sovranità. Quello che è accaduto domenica è stata una maniera di esprimersi. Deve esistere il diritto democratico della libertà di espressione. Quando la polizia reprime con la forza, l’aria franchista ritorna ed è raccapricciante”.

LE DEBOLEZZE DEL PIANO SEPARATISTA

Con questo l’imprenditrice non vuole dire che è d’accordo con i discorsi separatisti che ravvivano un senso di “patria”, che è “la trappola nella quale cadiamo per smettere di trovarci insieme come società, di guardarci vedendo somiglianze al posto di differenze. Non vedo chiaramente il piano dell’indipendentismo catalano per uscire dallo Stato spagnolo, non sarà per caso una scemenza? Mi chiedo cosa farebbe la Catalogna fuori dall’Unione europea”, dice Cortázar. “Credo però che a livello delle autonomie le risorse devono essere distribuite in modo migliore al resto della Penisola e le isole – spiega -. Ma il governo del Partito Popolare da molto chiude un occhio. Puigdermont nemmeno ascolta, così ci troviamo davanti a due leader sordi con la lingua larga”.

LA TESTARDAGGINE DELLA POLITICA

Cortázar ricorda che anche il governo di Maduro in Venezuela ignora una parte della popolazione che vuole esprimersi. Domenica si è sentita più a Caracas che a Barcellona, e ha provato molta ammirazione per l’orgoglio dei catalani: “Così all’ultimo minuto sono uscita a votare, in solidarietà per questo posto che mi ha accolto. Al di là delle posizioni, del sì o del no, si tratta di una lotta per i diritti democratici. Quando ho visto le immagini della polizia colpendo gli anziani non ho avuto dubbi. Dovevo votare […] Spero solo che la testardaggine finisca presto, ma in politica sarebbe un miracolo”.

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