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Perché la socialdemocrazia è in crisi in tutto il mondo (come dimostra il tonfo di Schulz)

Di Antonio Pilati

Nelle elezioni di domenica scorsa i socialdemocratici tedeschi scivolano al 20,5% dei voti e toccano il loro minimo storico. E’ una sconfitta che viene dopo altre, spesso anche più gravi, che hanno colpito negli ultimi anni i partiti socialisti di molti Paesi europei: Francia, Olanda, Austria, Spagna, Grecia

La ragione profonda di questi disastri a ripetizione è forse di ordine culturale: la sinistra europea, e in generale la sinistra del mondo occidentale, è stata investita nell’ultimo quarto di secolo da due catastrofi culturali, un peso molto difficile da reggere. Non è un dramma che riguarda solo i partiti coinvolti, è una questione globale sia perché squilibra in molte nazioni i sistemi politici sia perché inasprisce fratture sociali già molto gravi.

La prima catastrofe è quella del 1989-1991 quando la visione politica che propugna la costante espansione dell’economia pubblica – fino alla nazionalizzazione dei mezzi di produzione – e la solidarietà internazionale dei lavoratori più deboli e delle loro rappresentanze di partito – il campo socialista ovvero anti-imperialista – finisce con il crollo dell’Unione Sovietica. La gran parte dei partiti comunisti cambia nome e si avventura verso linee politiche pro-mercato, molti partiti socialisti si allineano alle privatizzazioni, guardano con favore le innovazioni e le espansioni della finanza, seguono con fiducia la terza via di Blair e puntano tutto sui consumi – gonfiati con ampie quote di debito – come fattore di coesione sociale.

La seconda catastrofe è quella del 2015-17 e investe il cosmopolitismo irenico convinto che la diffusione mondiale degli scambi, sostenuta da una finanza sempre più creativa che crede di aver scoperto il modo di azzerare i rischi, costituisca la chiave per assicurare il benessere mondiale attraverso una crescita continua e che, in correlazione, la politica sia un arnese inutile del passato, da archiviare con la fine della storia (copyright Fukuyama). L’incremento geometrico dei mercati dovrebbe, in prospettiva, pacificare il mondo in una capillare scoperta di convergenze: l’esempio tipico è il rapporto tra la Cina, che entra senza impegni e remore come un agguerrito stato mercantilista nell’arena commerciale globale, e gli Stati Uniti che a compensazione sono finanziati attraverso l’acquisto di massicce quote del debito pubblico. Il completamento di questa idea sono per un lato l’insistente centralità assunta dai diritti umani da applicare, come gli scambi, su un’indiscriminata scala mondiale (in ciò si esprime quell’annessione delle relazioni internazionali al mondo giuridico che consegue dall’idea di emarginare e superare la politica) e, per altro, la creazione su scala industriale di diritti civili che indeboliscono o addirittura smontano le strutture collettive di lunga tradizione irriducibili al mercato (in primo luogo la famiglia) individualizzando, come nelle transazioni, i soggetti sociali.

Il cosmopolitismo irenico cade a pezzi in due fasi. La prima fase è costituita dalla crisi economica che incuba nel 2007, esplode nel 2008, si aggrava in Europa nel 2010-11 e per ora non dà l’impressione di giungere a sicura conclusione: il disastro parte dalle banche e dalle agenzie finanziarie che gli stati – cioè la politica – sono costrette a salvare con la creazione e la messa in circolo di enormi masse di liquidità, si estende in Occidente all’economia reale, toglie risorse e redditi a centinaia di milioni di persone. La seconda fase è generata dalle migrazioni verso l’Europa che raggiungono numeri sempre più rilevanti a causa del crescente disordine politico in Nord Africa e in Medio Oriente (cui contribuiscono gravi e ripetuti errori politici dell’Occidente) e che sono avvertite da milioni di persone come una minaccia alla propria sicurezza e al modo di vita che da sempre ne contraddistingue l’esistenza.

Il crollo dipende in primo luogo dall’incongruenza sempre più marcata e alla fine insostenibile fra la visione cosmopolita con le sue previsioni teoriche, subito tramutate in promesse beneauguranti per il progresso della dinamica sociale, e lo sviluppo empirico degli eventi così difforme in gran parte dell’Occidente da quanto immaginato. In secondo luogo ha grande peso una falsa coscienza che si espande con il tempo a dimensioni drammatiche: ne costituisce il nucleo essenziale lo scarto fra i soggetti che sono dichiarati come punto di riferimento dell’azione politica – lavoratori subordinati, ceto medio con scarso potere decisionale, classi disagiate – e i soggetti favoriti dalle effettive decisioni politiche – finanza, banche, amministrazione pubblica. Ne è parte anche, sia pure in chiave minore, l’attenzione strategica squilibrata a favore dei diritti personali – cari soprattutto a mondi acculturati – e più incerta riguardo ai diritti sociali.

Scarto feroce dell’ideologia dalla realtà e falsa coscienza sono tratti comuni a entrambe le visioni che finiscono in catastrofe, forse più accentuati in quella precedente il 1989, come attesta la pluridecennale fake news veicolata dai partiti comunisti in tema di Unione Sovietica. Altri due elementi si muovono invece in chiave diversa, quasi opposta. Il primo concerne il rapporto tra economia e politica. Nella visione crollata insieme all’Unione Sovietica è la politica che domina: concentra la decisione e indirizza l’economia. La scelta politica ha la pretesa (l’illusione) di guidare la società e di promuovere, mediante il comando sull’economia, il benessere collettivo. Nella visione formatasi durante gli anni 90, in simbiosi con la globalizzazione, la politica abdica al primato, si ritira sullo sfondo: è l’economia (a forte leva finanziaria), in quanto globale e non intralciata da comandi eterogenei, che decide e si prende la responsabilità di diffondere il benessere. Al posto della scelta politica si installa al vertice della società l’algoritmo finanziario. L’inversione è densa di significato e di conseguenze. La caduta di scelte ponderate e costruite razionalmente deresponsabilizza e facilita comportamenti approssimativi, incerti, facilmente trainati dal pensiero invalso nella società globale: ciò toglie ai partiti di sinistra specificità politica e li porta spesso allo stallo o all’irrilevanza.

Il secondo elemento che differenzia le due catastrofi è il rapporto della sinistra con la visione politica dell’establishment e in generale dei partiti mainstream, per lo più centristi, che sono più spesso al governo. Prima del 1990-91 l’opposizione è netta, polare: principi e ricette, al di là di eventuali contingenze che nell’attualità possono avvicinare, sono in antitesi, non si sovrappongono; dopo il crollo sovietico prevale la convergenza: cessa la radicale differenza ideologica, la distinzione avviene su dettagli economici o su temi etici, che per definizione sfuggono al quotidiano della politica, e si agevola con ciò l’accesso al governo: il risultato (e il danno) è che nel sistema dei partiti si crea un vasta corrente centrale, con modeste varianti sulle ali, e si perde assortimento politico (l’ascesa delle formazioni radicali nasce anche dalla volontà degli elettori di riprendersi spazi di scelta). In questa evoluzione i partiti di centro e conservatori sono favoriti: il distacco dalle proprie tradizionali radici politiche, implicito nell’adeguamento ai principi e agli obiettivi della globalizzazione, è meno netto, l’abitudine a governare in coincidenza con le strategie dell’establishment appare consolidata e, in ultima analisi, sono i partiti socialisti che convergono sul terreno altrui e non viceversa.

L’ultimo punto da notare è che l’uscita dall’attuale catastrofe sembra un processo più complicato dell’uscita, pur dolorosa, dalla catastrofe precedente. Il mondo della sinistra si divide infatti, tra tensioni e tormenti che spesso separano ancor più dagli elettori, in due opzioni antitetiche: da un lato il ritorno, un po’ old fashion, alla tradizione, dall’altro l’inseguimento, spesso faticoso e acrobatico, delle tendenze oggi prevalenti (incluse, in qualche caso, le posizioni radicali su immigrazione e terrorismo). Negli Stati Uniti il socialista Sanders contende fino all’ultimo la nomination alla sinistra finanziaria e saudita della Clinton (e forse l’avrebbe spuntata se l’apparato democratico non avesse favorito con mezzi ai limiti del lecito, e magari anche oltre, Hillary). In Francia il finanziere Macron, transitato in diretta dalla maison Rothschild al ministero più importante del governo Hollande, assorbe gran parte del voto socialista e passa il primo turno delle presidenziali (che poi vincerà) superando con un modesto scarto (24% contro il 20%) il candidato di estrema sinistra Mélenchon. In Italia il Partito Democratico di Renzi patisce una corposa scissione a sinistra formata nel suo nucleo centrale da ex comunisti. In Spagna Podemos, estrema sinistra in stile Syriza, ottiene un ottimo risultato al suo debutto elettorale e quasi pareggia il voto del Psoe in netto declino. In altri Paesi il partito leader sceglie con decisione, senza rotture di rilievo, una delle due opzioni: i laburisti britannici tornano con Jeremy Corbin alla tradizione pre-Blair e realizzano un brillante 40% alle ultime politiche, mentre in Grecia l’estrema sinistra di Syriza vince con Alexis Tsipras, dopo la quasi estinzione del Pasok, lo storico partito socialista, due consultazioni di fila in condizioni molto difficili; sul versante opposto i socialisti austriaci, in grave crisi, virano a destra come i socialisti slovacchi ed entrambi i loro governi adottano misure molto forti in tema di immigrazione. Vi sono poi i partiti in declino che, come in Francia e in Olanda, crollano alle elezioni ma evitano di scegliere una delle due opzioni e finiscono ai margini della vita politica. In questa situazione, ma con numeri assai migliori, si trovano anche i socialdemocratici tedeschi che non riescono più a porsi come credibili sfidanti di governo permettendo ad Angela Merkel di arrivare senza troppi problemi al quarto mandato da cancelliere.

In sintesi, è in corso una trasformazione di estese proporzioni, di cui è difficile immaginare gli sbocchi ma sono chiari i componenti essenziali. Cambiano anzitutto in molti paesi sia il formato sia le dinamiche di sviluppo dei sistemi politici: si rompe l’asse centrale basato sulla competizione – peraltro consensuale su un ampio nucleo di temi fondamentali – tra socialisti e popolari (o conservatori) e subentra lo scontro, privo però di un blocco di temi condivisi, tra partiti mainstream (popolari e/o ex socialisti dirottati al centro se non oltre) e formazioni radicali (collocate sia a destra sia a sinistra): lo si vede in Francia, Italia, Austria, Polonia, Ungheria e, in misura parziale, in Olanda, in alcuni paesi scandinavi, qua e là nei Balcani. In secondo luogo la radice della trasformazione è, con evidenza, il sentimento di esclusione che colpisce quella parte di elettori impoveriti dalle ricadute dell’espansione globale dei mercati e minacciati (almeno nella loro personale percezione) dal disordine politico (terrorismo, immigrazione fuori controllo) diffuso ai confini dell’Europa.

Oggi alcuni antidoti al sentimento di esclusione – ripresa economica, recupero di controllo sui fenomeni migratori – sembrano delinearsi. Tuttavia si tratta di processi incerti e fragili: i motivi di fondo della crisi, alla fine, permangono intatti, dalla difficoltà di compensare i posti di lavoro che un’incessante innovazione tecnologica continua a bruciare alle bolle potenziali – e in prospettiva devastanti – legate al costante incremento quantitativo della finanza fino al disordine politico che i conflitti endemici del Medio Oriente e l’aggressiva politica di espansione – commerciale ma anche militare – della Cina sia in gran parte dell’Asia, dall’India al Giappone, sia in Africa non cessano di alimentare.

L’evoluzione, così aspra e selvatica, dei nostri sistemi politici ha buone probabilità di continuare.

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