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Come fare la guerra ai foreign fighters. Report Soufan Center

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L’attenzione dell’antiterrorismo di mezzo mondo è concentrata sui foreign fighters dopo la caduta di Raqqa, prevenzione ancora più complicata perché non si conoscono i numeri esatti dei combattenti. L’ultimo report del Soufan Center di New York (“Beyond the Caliphate. Foreing Fighters and the Threat of Returnees”) raccoglie una discreta quantità di informazioni ed è redatto da Richard Barrett, che ha lavorato a lungo per l’intelligence britannica (sia MI5 che MI6) e che per nove anni ha diretto il Monitoring Team delle Nazioni Unite su Al Qaeda e i Talebani, oltre ad avere una lunga esperienza diplomatica. Una delle sue conclusioni è che la strategia delle autorità dovrebbe essere quella di stabilire delle priorità e di individuare i diversi livelli di minaccia piuttosto che aumentare la sorveglianza sui propri cittadini.

NON SI SA QUANTI SONO

Dovrebbero essere almeno 5.600 i foreign fighters tornati in 33 Paesi di provenienza. Il rapporto del Radicalisation Awareness Network (Ran), un progetto finanziato dalla Commissione europea citato da Barrett, indica in oltre 42mila i combattenti stranieri provenienti da più di 120 nazioni e recatisi nei teatri di guerra tra il 2011 e il 2016, di cui circa 5mila dall’Europa. Nelle stime complessive che si fanno nell’Ue, e ribadite in Italia nei mesi scorsi, si parla invece di 25mila-30mila foreign fighters. Comunque sia, il report sottolinea che l’Isis non è sconfitto nonostante la caduta di Raqqa e il Ran stima che il 30 per cento dei combattenti partiti dall’Europa sia rientrato. In dettaglio, dalla Russia sono andati in Siria e Iraq in 3.417 e ne sono tornati in 400, dall’Arabia Saudita in 3.244 e tornati in 760, 3mila dalla Giordania che ne ha riaccolti 250, 2.926 dalla Tunisia dove sono tornati in 800 e 1.910 dalla Francia con 271 “returnees”. Sono invece indicati 110 foreign fighters italiani in base a rapporti di un anno fa, ma le recenti cifre ufficiali parlano di 125 combattenti monitorati, molti dei quali morti. A dimostrazione che il fenomeno sia difficilmente controllabile, nello scorso giugno le autorità turche hanno contabilizzato addirittura 53.781 individui appartenenti a 146 Paesi i cui governi temono siano andati a combattere in Siria e Iraq.

GLI ATTENTATI SVENTATI

È inevitabile che restino impresse nella memoria le tragedie degli ultimi attentati terroristici mentre forse sfuggono le notizie (anche se comunicate ufficialmente) degli attentati sventati. Il report del Soufan Center ricorda che, per esempio, la Francia ne ha evitati 12 solo tra gennaio e settembre 2017; tra aprile e giugno 2017 la Gran Bretagna ne ha sventati 5, pur avendone subiti 3; la Turchia ha subito 14 attentati fino al luglio scorso, ma ne ha sventati 22 nel 2016; l’Australia, in tre anni fino all’agosto scorso, ne ha subiti 4 sventandone 11. E si potrebbe andare avanti con altre aree del mondo: se infatti ci si concentra su Siria e Iraq, il pericolo dei foreign fighters e del terrorismo arriva anche dalla Libia e da altre regioni africane.

DONNE E BAMBINI

Altro elemento da non sottovalutare anche per le conseguenze psicologiche è il coinvolgimento di donne e bambini nell’attività terroristica. Solo dall’Europa Occidentale si contano 859 bambini finiti con l’Isis: 460 dalla Francia, 118 dal Belgio, 50 dal Regno Unito, 90 dai Paesi Bassi, 56 dalla Germania, 45 dalla Svezia e 40 dall’Austria. Tra il 2014 e il 2016 il Califfato ne avrebbe reclutati almeno 2mila. Cresce inoltre il ruolo delle donne nell’organizzazione di attentati: da gennaio a maggio di quest’anno sono state al centro di 7 progetti di attentato, il 23 per cento del totale rispetto per esempio al 5 per cento del 2015. Purtroppo ci sono determinate aree in cui le organizzazioni terroristiche non vanno per il sottile: è il caso di Boko Haram nell’Africa Occidentale che tra l’aprile 2011 e il luglio 2017 ha utilizzato 434 persone contro 247 obiettivi in 238 attentati kamikaze: erano donne per il 56 per cento e almeno 81 kamikaze erano bambini o adolescenti.

CINQUE MODI DI “RITORNARE”

Nel report del Soufan Center, Barrett indica cinque diversi motivi del ritorno a casa di un foreign fighter. Il primo è semplicemente una mancanza di integrazione nell’Isis e una permanenza durata molto poco, anche se è impossibile prevedere che cosa farà una volta a casa e se cercherà comunque una soluzione violenta ai suoi problemi, soprattutto se sarà nelle stesse condizioni della partenza.

C’è poi chi torna più tardi, ma perché ha cominciato a nutrire dubbi non sulla “filosofia” di fondo, bensì sulla leadership o sulle tattiche: molti possono essere colpiti dall’estrema violenza utilizzata.

Il terzo tipo di ritorno riguarda coloro che considerano raggiunti i propri obiettivi e che magari hanno vissuto l’apice del successo del Califfato nel 2015. In qualche caso sono andati alla ricerca di altre battaglie: per esempio nei primi 6 mesi del 2017 circa 100 combattenti non tutti afghani sono entrati in Afghanistan per combattere con l’Isis in quella regione.

Un altro genere di abbandono riguarda chi è costretto da una sconfitta militare o viene catturato. Se riesce a tornare a casa, contribuisce a reclutare altri terroristi: si va restringendo sempre di più, infatti, il tempo che intercorre tra l’interesse provato per l’Isis e l’attività terroristica come dimostra la storia di uno degli attentatori di Parigi del novembre 2015 che aveva mostrato interesse per l’Islam solo un mese prima.

Il quinto e ultimo motivo di ritorno è il più preoccupante perché riguarda i terroristi che l’Isis spedisce a compiere attentati. Un simpatizzante catturato quest’anno ha confermato che almeno fino al febbraio scorso l’Isis ha continuano a offrire la possibilità di un addestramento di 7 mesi a potenziali cellule europee in modo da organizzare attentati all’estero. Una lista trovata in Iraq quest’anno elencava 173 membri dell’Isis, di cui 6 europei, pronti a compiere attentati suicidi. Oggi, scrive Barrett, la loro sorte è sconosciuta.

CHE FARE

Le conclusioni del Soufan Center sono generali e dunque vanno lette in maniera diversa se ci basiamo sulle capacità investigative e di intelligence italiane, oltre che sulle nostre norme antiterrorismo, piuttosto che su come operano altri Paesi europei. Se un “lupo conosciuto” come lo definisce Barrett, cioè un potenziale terrorista noto alle forze di polizia, riesce a organizzare un attentato non dipende dalla scarsa attenzione delle autorità, bensì probabilmente dal fatto che stavano guardando altrove. Per il resto, un foreign fighter arrestato pone due problemi: evitare ulteriori proselitismi in carcere e la necessità di un successivo e complicato percorso di riabilitazione, ancora più difficile se parliamo di giovanissimi che presentano spesso gravi disturbi psicologici. Dev’essere chiaro che l’Isis ha costretto il mondo a ragionare in modo diverso e a prendere coscienza del fatto che il rifiuto delle istituzioni e l’“ideologia” del Califfato non finiranno presto, così come di conseguenza il fenomeno dei foreign fighters, che si uniscano all’Isis o a chiunque altro sfrutti la sua immagine.

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