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Ilva, ecco le vere ragioni delle tensioni fra governo e Mittal-Marcegaglia

Carlo Calenda

Dovevano iniziare quest’oggi al ministero dello Sviluppo economico le trattative fra i sindacati e i rappresentanti della cordata Am Investco Italy sugli assetti produttivi e occupazionali del gruppo Ilva, dei suoi stabilimenti in Italia e soprattutto dei siti maggiori di Taranto e Genova. Ma il tavolo al Mise è saltato. La conferma è arrivata dal ministro dello Sviluppo, Carlo Calenda: «Bisogna ripartire dall’accordo di luglio, dove si garantivano i livelli retributivi. Se non si riparte da quell’accordo la trattativa non va avanti». «Abbiamo iniziato l’incontro con l’azienda comunicando che l’apertura del tavolo in questi termini è irricevibile, in particolare per gli impegni sugli stipendi e l’inquadramento, su cui c’era l’impegno dell’azienda», ha aggiunto prosegue il ministro, che ha poi insistito: «Non possiamo, come Governo, accettare alcun passo indietro su retribuzioni e scatti di anzianità acquisiti che facevano parte degli impegni». «Sconcerto» ha espresso la delegazione dei vertici di Ancelor Mittal sulla decisione del ministero di non aprire il tavolo di trattative, «una decisione del tutto inattesa» fanno sapere spiegando di essersi presentati disponibili ad avviare una trattativa che potesse essere sostenibile «da tutti i punti di vista, compreso quello economico». Ma ripercorriamo gli antefatti.

Venerdì scorso Am Investco in un documento firmato anche dai commissari Gnudi, Carrubba e Laghi, ha reso noti i livelli occupazionali complessivi – pari a 10.020 unità – che intende mantenere e la loro distribuzione impianto per impianto che, per Taranto in particolare, prevederebbe un organico di 7.600 addetti – con una pesante riduzione di 3.311 unità – e a Genova di 900 con una diminuzione di alcune centinaia di addetti. Sarebbero previste inoltre – ed è questo l’elemento che ha scatenato le reazioni più dure dei sindacati – riassunzioni con reinquadramenti in regime di jobs act, e con azzeramento di anzianità pregresse e di integrativi aziendali e, di conseguenza, con un secco taglio delle retribuzioni in busta paga.

Dopo l’annuncio il ministro Claudio De Vincenti è stato molto chiaro quando ha affermato che: 1) per il numero degli occupati si parte dalle 10mila unità, dichiarate dall’azienda, ma si potrebbe anche salire dopo il confronto con i sindacati; 2) si parte dalla parità salariale, peraltro prevista dall’offerta a suo tempo presentata dalla cordata che faceva riferimento a 50mila euro nel 2018 e a 52mila nel 2021, come ha ribadito ieri anche la viceministra Teresa Bellanova; 3) i lavoratori non reimpiegati nella nuova società, restano in carico all’amministrazione straordinaria e saranno riutilizzati nelle bonifiche.

Comunque, è bene ricordare (ancora una volta) che solo se i sindacati (e con essi i lavoratori interessati) daranno il loro assenso al piano industriale definitivo e a quanto esso prevederà circa il numero degli addetti impiegabili e le condizioni contrattuali per la loro assunzione e solo se l’Unione Europea darà il via libera all’operazione – non ravvisando grazie ad essa per il gruppo Arcelor Mittal posizioni dominanti in certi segmenti di prodotti – sarà possibile il closing per l’acquisizione degli asset del grande gruppo siderurgico da parte del raggruppamento guidato con una quota dell’85% da Arcelor Mittal, primo produttore di acciaio al mondo, e partecipato con un limitato 15% dalla società italiana Marcegaglia: in tale cordata entrerà Intesa San Paolo, non subito però ma solo prima del closing definitivo.

Ora, la dichiarata opposizione delle organizzazioni sindacali e dei consigli di fabbrica che hanno immediatamente considerato irricevibile le proposte annunciate dalla AM Investco, proclamando iniziative di mobilitazione, stimola alcune riflessioni da considerarsi premesse necessarie.

La prima premessa è la seguente: sarebbe un grave errore considerare la trattativa che doveva avviarsi oggi come una delle tante aperte al tavolo del Mise per fronteggiare situazioni di crisi aziendali, non solo perché stiamo discutendo del maggior gruppo siderurgico italiano e della più grande fabbrica manifatturiera del Paese – che è lo stabilimento di Taranto con i suoi (attuali) 10.980 occupati diretti – ma perché la questione del riassetto della Ilva, e di conseguenza della siderurgia italiana, è tuttora una grande questione nazionale. Se lo ricordino tutti. Pertanto dovrebbe essere discussa e affrontata dal governo nella sua interezza, con il pieno coinvolgimento del Parlamento e delle parti sociali, in primo luogo Confindustria e sindacati.

In realtà, come ben sanno gli storici dell’industria, l’organizzazione e il rafforzamento del comparto dell’acciaio hanno rappresentato una questione strategica per il nostro Paese sin dall’età giolittiana – ed è auspicabile in proposito che ne abbiano informato il gruppo Arcelor che non è tenuto a conoscere la storia industriale italiana – ed inoltre è appena il caso di ricordare che il siderurgico di Taranto è stato definito da una legge del nostro Stato “stabilimento di interesse strategico nazionale”: pertanto come tale dovrebbe continuare ad essere considerato dal nostro esecutivo e dal potenziale acquirente.

La seconda premessa è la seguente: la dura battaglia che si preannuncia da parte soprattutto di operai, tecnici, quadri e dirigenti di tutti gli impianti e soprattutto del sito ionico può essere considerata anche una risposta a quanti, fra gli ambientalisti della città, continuano tuttora a sperare che l’acciaieria di Taranto venga dismessa nella totalità dei suoi impianti, o almeno fortemente depotenziata nelle sue capacità di produzione di ghisa.

Se queste premesse hanno fondamento, allora è del tutto evidente che la mobilitazione nazionale del mondo sindacale dell’Ilva dovrebbe considerarsi in primo luogo la battaglia per una politica siderurgica che sia all’altezza del ruolo che il nostro Paese dovrebbe continuare ad occupare come potenza manifatturiera mondiale, e poi come battaglia per conservare i posti di lavoro e le condizioni salariali e contrattuali maturate negli anni.

In realtà, gli assetti occupazionali previsti per Taranto hanno come punto di riferimento – per quel che concerne la produzione – quanto stabilito nel decreto del presidente del Consiglio dei Ministri del 29 settembre scorso, pubblicato in Gazzetta ufficiale del 30 settembre, recante il “Piano delle misure e delle attività di tutela ambientale e sanitaria”. All’articolo 2 di quel decreto si stabilisce che la produzione dello stabilimento dell’Ilva di Taranto non potrà superare i sei milioni di tonnellate all’anno di acciaio fino al completamento di tutti gli interventi previsti per l’Aia, la cui scadenza è fissata al 23 agosto 2023, fatte salve le diverse tempistiche espressamente previste negli allegati I e II del Dpcm.

Am Investco si impegnerebbe a raggiungere la soglia dei 6 milioni di tonnellate di acciaio liquido entro il 2018 e a mantenere tale livello sino alla completa implementazione del piano ambientale alla data del 23 agosto 2023. Entro il 2020 si giungerebbe a 8,5 milioni di tonnellate di spedizione di prodotti finiti con la lavorazione di bramme provenienti da altri siti di Arcelor Mittal.

Ecco allora un primo elemento su cui riflettere: ma fissare al 23 agosto del 2023 il completamento degli interventi per l’Aia non ha significato spostarlo in un futuro troppo remoto? Si pensi in proposito che quel termine, se rispettato, cadrebbe nella legislatura del nostro Parlamento successiva alla prossima, che inizierà nella primavera del 2018. Ma le esperienze degli ultimi decenni ci dicono che in sei anni possono sconvolgersi gli equilibri economici mondiali e di conseguenza la produzione di acciaio. Perché allora non introdurre una modifica al Dpcm che anticipi la conclusione dell’Aia dal 23 agosto del 2023 al 31 dicembre del 2019? O questa anticipazione creerebbe difficoltà alla cordata Am Investco?

Ma anticipare drasticamente il completamento di tutti gli interventi di ambientalizzazione – tecnicamente fattibili in 24 mesi – non significherebbe anche contenere temporalmente le emissioni nocive sull’ecosistema locale?

E poi, far dipendere il sito di Taranto da un 25-30% di importazione di bramme non significherebbe privarlo di quell’autonomia produttiva che esso ha sempre avuto dalla sua impostazione impiantistica originale? E’ evidente che il gruppo Arcelor Mittal vuole integrare il sito ionico nel suo sistema di produzione europeo: ma tale integrazione risponde pienamente alle esigenze e alla redditività di quel sito e agli interessi siderurgici del nostro Paese? E non sarebbe più conveniente per la stesso gruppo Arcelor conservare intatta – dopo tutti gli interventi di ambientalizzazione – la capacità produttiva di Taranto, che una volta risanata, dispiegherebbe una potenza competitiva fra le maggiori in Europa, essendo tuttora quello tarantino il primo stabilimento nella Ue per capacità installata?

Un’altra domanda che si affaccia fra le tante, ora che la trattativa: e le aziende dell’indotto che a Taranto costituiscono – ma pochi lo sanno – il più grande raggruppamento di imprese impiantistiche del Sud, insieme a quello del polo petrolchimico di Augusta e Priolo in Sicilia, come verranno coinvolte nelle attività dello stabilimento con la nuova proprietà? Il silenzio ufficiale sull’argomento è assordante. Certo, quelle aziende dovranno (se necessario e conveniente) diversificare le loro attività, riqualificarsi, aggregarsi, spostarsi su altri mercati anche esteri, ove potrebbero – con il sostegno del nuovo Ice, del ministero degli Esteri e di grandi gruppi pubblici e privati presenti in certe aree – acquisire in logiche di mercato commesse anche di rilevanti dimensioni, purché eseguibili in gruppi integrati.

Siamo insomma ancora agli inizi di un percorso che sarà inevitabilmente lungo e che potrà concludersi positivamente solo se verranno rispettate le attese e le esigenze del nostro Paese, del mondo del lavoro e delle città interessate, naturalmente in un quadro di convenienze comuni con il raggruppamento che si accinge all’acquisto del gruppo Ilva.

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