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Nota Def, vi spiego cosa farà davvero il governo su spesa, tasse e debito

Pier Carlo Padoan

La cosa migliore del quadro macroeconomico delineato dalla Nota d’aggiornamento del Def, che fa da sfondo alla prossima legge finanziaria, è la fine imminente di un antico tormentone. Quello delle “clausole di salvaguardia”: una copertura finanziaria “creativa” che ci trasciniamo dalla grande tempesta del 2011. Quando Giulio Tremonti, per fronteggiare la complessa situazione non solo finanziaria, ma politica, ipotizzò una futura potatura delle tax expenditures, per far quadrare i conti a medio termine. Vale a dire una riduzione di quelle esenzioni, sotto forma di deduzioni e detrazioni di imposta, che pesano come un macigno sui conti pubblici italiani. La Corte dei conti, in un suo documento del 2016, aveva individuato ben 799 voci, per un valore complessivo di 313,1 miliardi. Più del 60 per cento del gettito erariale complessivo. Una giungla da disboscare, ma nel quadro di una riforma fiscale, che utilizzi queste risorse per abbassare, contestualmente, il numero delle aliquote ed il loro valore marginale.

Con il governo Monti, dopo le riserve formulate dalla Commissione europea, queste escamotage contabili cambiarono forma, ma non la sostanza. Furono sostituiti dall’aumento, a futura memoria, dell’Iva e delle accise. Aumenti che si sono, in parte verificati, rinviando sempre all’esercizio successivo la loro definitiva eliminazione. Sarà così anche per il 2018. Il temuto aumento dell’Iv e delle accise sarà ancora una volta scongiurato. Peserà ancora nel 2019, seppure per un importo molto più limitato. Ma superato quest’ultimo scoglio, finalmente, si tornerà ad una gestione più ordinata del bilancio ed ad una maggiore trasparenza nella gestione dei conti pubblici. Accontentiamoci, quindi, dei risultati conseguiti. Anche se non mancano le controindicazioni: un’eccessiva timidezza nel taglio della spesa pubblica – appena 0,15 punti di Pil – che fa a pugni con il ventilato aumento delle entrate – 0,35 punti di Pil – ed un ancor più sostenuto aumento dell’indebitamento – 0,6 punti di Pil – rispetto al quadro tendenziale delineato nella scorsa primavera.

La cosa peggiore continua, invece, ad essere l’anemia produttiva, sebbene si registri una piccola variazione in aumento del tasso di crescita. Non sarà, infatti, sufficiente a ridurre quel fossato che divide l’economia italiana dalla media dell’Eurozona. Quei 24,4 punti di Pil che, secondo i calcoli del Centro studi di Confindustria, separa la Penisola dal resto del Continente, a partire dall’inizio del Terzo millennio. Distanza che, comunque, aumenterà: seppur di poco. E che riflette il vero limite di un Paese che, per troppo tempo, ha subito le sirene del piccolo cabotaggio. Senza mai porsi il problema di una visione strategica e di medio periodo, in grado di risolvere i suoi problemi di fondo. Certo la fine di una legislatura travagliata non poteva essere il momento migliore per affrontare un problema di questa prospettiva. Va comunque evidenziato: nella speranza che di questo si possa discutere nell’imminenza della prossima campagna elettorale.

Il modello di sviluppo dell’economia italiana è rimasto acefalo. Tenta di seguire (male) le orme del “colbertismo” francese. Ed, al tempo stesso, non è in grado di liberarsi delle suggestioni tedesche. Dimenticando che il “modello renano” può vivere solo grazie alla forza di un sistema bancario – il vero pivot del suo sviluppo industriale – che, in Italia, semplicemente non esiste. Deve quindi scegliere da che parte stare ed essere coerente con queste premesse. Non può utilizzare il deficit di bilancio per perseguire fini di carattere politico: bonus, sovvenzioni a questo o a quello, seppure nobilitate da nobili principi. Un maggior deficit, come avviene in Francia o in Spagna, ha senso solo se è direttamente ed immediatamente funzionale ad un maggior tasso di sviluppo. Quindi esclusivamente rivolto a rilanciare gli investimenti pubblici e privati e a ridurre il peso del carico fiscale, in forma generalizzata e permanente.

L’esatto contrario di quanto avvenuto in questi ultimi anni. Uno dei grafici della Nota d’aggiornamento che più colpisce è quello relativo al confronto tra Italia, Francia e Germania, in tema di investimenti. Siamo 4 o 5 punti di Pil al di sotto dei parametri di Parigi. La stessa Germania non brilla, anche se va meglio dell’Italia. Ma in questo secondo caso sono le banche a svolgere quel ruolo di sostegno che in Italia è del tutto insufficiente. Ci sono le risorse per tentare una svolta? Secondo Banca d’Italia, “lo scorso luglio il surplus corrente della bilancia dei pagamenti ha raggiunto il 2,7 per cento del Pil”: quasi il doppio del tasso di crescita previsto per l’anno in corso. Al tempo stesso: “la posizione debitoria netta con l’estero del nostro Paese si è portata al livello più basso degli ultimi quindici anni, intorno all’8,5 per cento del Pil”. Non bisogna essere accaniti sostenitori di Keynes per vedere che c’è qualcosa che non funziona.

Siamo una sorta di piccola Germania, il cui attivo è tre volte tanto. Ma non abbiamo gli stessi numeri di occupazione e di disoccupazione. Per non parlare del livello di reddito pro-capite. Però manteniamo a basso regime il motore dello sviluppo, accumulando risorse finanziarie – il surplus valutario appunto – che finiamo per sterilizzare. Eppure dovremmo ricordare la parabola dei tre talenti. Siamo come colui che si limitava a lucidare la moneta, invece di adoprarsi per farla rendere. E’ solo un piccolo pro-memoria per il Governo che verrà. Dovrà avere la forza di abbandonare vecchie ed inconcludenti abitudini, per dare alla società italiana un orizzonte diverso, in un quadro europeo che dovrà a sua volta cambiare. Dopo una discussione seria, come prescrive l’articolo 16 del Trattato istitutivo del fiscal compact sui (fallimentari) risultati da queste regole conseguiti. Le cui conseguenze politiche – il vento del populismo –  ne sono la diretta filiazione.

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