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Pensioni, cosa non va nella sentenza della Corte costituzionale sulla perequazione

Di Michele Poerio e Carlo Sizia

Per giudicare una sentenza (ci riferiamo alla sentenza 25/10/2017 della Consulta) bisognerebbe attendere il relativo dispositivo, confrontarlo con quello della precedente sentenza 70/2015 su analoga materia, e poi giudicare e commentare secondo logica, serenità, fedeltà rispetto ai principi e valori contenuti nella Costituzione vigente.

Tuttavia il comunicato stampa della Corte (datato 25/10/2017) esige un commento immediato, visti i contenuti sfacciati, fuorvianti ed ipocriti in esso contenuti.

Primo aspetto: afferma il comunicato che la Corte costituzionale ha respinto le censure di incostituzionalità del decreto legge n. 65 del 2015 in tema di perequazione delle pensioni, che ha inteso “dare attuazione ai principi enunciati nella sentenza della Corte costituzionale n. 70 del 2015”.

La Corte, evidentemente, mostra di credere al “fine dichiarato” dal legislatore nelle premesse del decreto (cioè dare attuazione alla sentenza 70/2015), anziché valutare, nel merito, le disposizioni di legge in ottemperanza ed attuazione di un preciso giudicato costituzionale (direttamente ed immediatamente applicativo), sentenza pertanto che risulta platealmente disattesa.

Infatti il d.l. 65/2015 (convertito poi in legge 109/2015), anziché prendere atto dell’art. 136 della Costituzione, secondo cui “quando la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge o di un atto avente forza di legge, la norma (ndr: nella fattispecie l’art. 24, c. 25, della legge Fornero 214/2011, che limitava la perequazione, nel biennio 2012 e 2013, solo nei confronti delle pensioni lorde di importo fino a 3 volte il minimo INPS) cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”, facendo così rivivere i criteri di indicizzazione delle pensioni preesistenti rispetto alla legge Fornero, cioè quelli della legge 388/2000 (rivalutazione al 100% fino a 3 volte il minimo INPS; al 90% tra 3 e 5 volte il minimo; al 75% oltre le 5 volte), ha invece “preso a prestito” i criteri peggiorativi di cui alla legge Letta (L. 147/2013), aventi efficacia nel triennio 2014-2016, poi prorogati per un nuovo biennio (fino al 31/12/2018) dal Governi Renzi (L. 208/2015).

Infatti la legge Letta peggiora i criteri di perequazione, ampliando da 3 a 5 le fasce economiche di riferimento, riducendo le percentuali di rivalutazione delle pensioni oltre 4 volte il minimo INPS e non discrimina più l’indice di rivalutazione a scaglioni, cioè in modo decrescente tra le fasce di diverso e maggiore importo delle pensioni, ma tra valore complessivo della pensione stessa, penalizzando così quelle di importo medio-alto.

Ma anche accettando la “disinvoltura irrituale” della efficacia retroattiva di una legge successiva (come risultano essere sia la legge 147/2013, sia la legge 109/2015, rispetto al biennio 2012 e2013), il decreto Poletti-Renzi, anche laddove mostra di dare attuazione, parziale e tardiva, ai principi della sentenza 70/2015, incorre nei seguenti abusi: 1) rispetto alle variazioni ISTAT certificate nel 2012 (+ 2,7%) e nel 2013 (+ 3%), ai pensionati tra 3 e 4 volte il minimo INPS è stato riconosciuto a titolo di perequazione solo il 40% (rispetto al 95% della legge 147/2013); ai pensionati tra 4 e 5 volte il minimo INPS solo il 20% (anziché il 75%); ai pensionati tra 5 e 6 volte il minimo INPS solo il 10% (anziché il 50%, sempre ai sensi della legge 147/2013); 2) nessuna indicizzazione è stata riconosciuta, per il biennio 2012-2013, ai percettori di pensioni oltre le 6 volte il minimo INPS, confermando così pienamente, per questo aspetto, l’illegittimità costituzionale dell’art 24, c. 25, della legge 214/2011 (già sancita dalla sentenza 70/2015 della Corte, che non fa alcun “distinguo” circa l’applicabilità dei principi costituzionali, come richiamati e ribaditi, per i diversi importi delle pensioni in godimento), a fronte di una piena e confermata indicizzazione del 100% solo per le pensioni fino a 3 volte il minimo INPS; 3) il decreto 65/2015, nato per sostituire una norma illegittima, dichiarata incostituzionale ed avente in origine efficacia biennale, non si limita ad avere un effetto retroattivo sul biennio 2012-2013, ma ha addirittura una efficacia procrastinata nel tempo, infatti incide sul “trascinamento” degli adeguamenti parziali e tardivi concessi ai percettori di pensioni tra 3 e 6 volte il minimo INPS, che vengono infatti raffreddati e contingentati, nel 2014 e 2015 (al fine dei successivi incrementi) al 20% dei miglioramenti perequativi già concessi nel biennio precedente (con abbattimento quindi dell’80%) ed al 50% (con abbattimento percentuale quindi di pari importo) dal 2016 e per gli anni successivi. Insomma non si era mai visto, in materia di indicizzazione, un “go and stop” di questo tipo, con il paradosso che solo i pensionati tra 3 e 6 volte il minimo INPS hanno avuto un riconoscimento, a titolo di perequazione, negli anni 2016 e 2017, quando tutti gli altri pensionati non hanno avuto benefici in ragione del fatto che il tasso di svalutazione e rivalutazione è stato riconosciuto, per entrambi gli anni, in misura dello 0%. L’anomalia anzidetta è dipesa solo dai “pasticci” del duo Renzi-Poletti, che hanno calpestato grossolanamente la sentenza 70/2015, finendo per restituire ai pensionati circa il 10% di quanto loro maltolto nel biennio 2012-2013; 4) non una parola, infine, è stata spesa, nella legge 109/2015, su interessi e rivalutazione, pur dovuti sulle somme percepite in ritardo (dal 2015 in poi, anziché nel 2012 e 2013) dai pensionati in questione.

Secondo aspetto: afferma il comunicato stampa che la Corte ha ritenuto che – diversamente dalle disposizioni del Salva Italia annullate nel 2015 con tale sentenza (ndr: la n. 70/2015) – la nuova e temporanea disciplina realizzi un bilanciamento non irragionevole tra i diritti dei pensionati e le esigenze di finanza pubblica.

A tal proposito, per amor del vero, occorre chiarire:

  • che la disciplina di cui al d.l. 65/2015 non è “nuova”, certamente per i pensionati oltre le 6 volte il minimo INPS, infatti è esattamente rimasta quella vecchia ed illegittima della legge Fornero, censurata dalla sentenza 70/2015;
  • e neppure può definirsi “temporanea”, infatti gli effetti penalizzanti dei provvedimenti in esame (de-indicizzazione totale o parziale delle pensioni) incidono in modo permanente sulla misura delle pensioni in godimento per tutta la vita residua dei pensionati stessi, aventi cioè misura dell’assegno previdenziale di importo lordo oltre le 3 volte il minimo INPS;
  • che i pensionati penalizzati dalla legge Fornero, e dal decreto 65/2015, sono in buona parte quelli stessi già colpiti nel 2008, e poi ancora nel 2012 e 2013 (con indicizzazione azzerata), e nuovamente dalla limitazione, in misura del 40-45% sul valore complessivo della pensione, rispetto agli indici pieni di rivalutazione, nel 2014, 2015, 2016, 2017, 2018 (8 anni nell’arco di 11 anni, a legislazione vigente, quindi il 72% del periodo);
  • e poi, come può definirsi “non irragionevole” il “bilanciamento”, riferito solo ai pensionati oltre le 3 volte il minimo INPS, tra i diritti dei pensionati stessi e le esigenze di finanza pubblica? Ci vuol proprio una bella dose di ipocrisia fare riferimento al criterio, improprio ed indiretto, della “non irragionevolezza”, rispetto ai criteri della ragionevolezza e della proporzionalità, che finora (in decine di sentenze fondamentali della Corte) hanno sempre rappresentato il “faro” per gli orientamenti ed le decisioni in materia previdenziale;
  • ci vuol anche un bel “coraggio” nel non vedere l’effetto discriminante prodotto dal d.l. 65/2015, che si manifesta sia all’interno della stessa categoria dei pensionati, che hanno avuto nel tempo un analogo regime previdenziale (calcolo della pensione con meccanismo totalmente o prevalentemente retributivo, a prescindere dal fatto che siano stati gratificati o no dal mantenimento della indicizzazione, realtà che evidentemente è sfuggita alla Corte), sia tra i pensionati ed i titolari di redditi non da pensione, ma di analogo importo. Inoltre i criteri della deindicizzazione sono capricciosi (quindi arbitrari), infatti distinguere tra fasce di importo delle prestazioni indicizzate, e fasce totalmente escluse, può determinare (come determina) il paradosso secondo cui chi ha avuto nella vita lavorativa lavoro più qualificato e maggiori retribuzioni e contribuzioni previdenziali, può poi trovarsi a godere di una misura inferiore di trattamento pensionistico, scardinando così l’altro principio costituzionale (oltre all’adeguatezza, di cui all’art. 38 Cost.), cioè quello che prevede la necessaria proporzionalità tra retribuzione goduta e pensione maturata, intesa come retribuzione differita (art. 36 Cost.). E come può il Prof. Prosperetti svilire significati e valori dei diritti acquisiti, quando l’istituto della pensione rappresenta proprio la “summa” dei diritti acquisiti, derivanti da una vita di lavoro e da adeguate contribuzioni previdenziali?
  • E come è possibile e giustificabile che lo Stato, per tentare di correggere i propri “errori” di bilancio, si rivalga sui diritti acquisiti e consolidati dei pensionati (categoria debole, per definizione), anche a costo di vilipendere la Costituzione, piuttosto che evitando gli sprechi e le regalie (di tipo elettoralistico, ad esempio, come sono l’orgia di bonus introdotti dal Governo Renzi, che rappresentano quanto di più discrezionale e discriminante possa esistere, mentre si negano i diritti veri, dai rinnovi dei contratti all’adeguamento delle pensioni), nonché combattendo la corruzione politica (che è tanta parte della mala-gestione della cosa pubblica), l’evasione, le ruberie, le tangenti, le complicità, i privilegi ingiustificati, gli illeciti arricchimenti, la illegalità diffusa, ecc.? Ognuno degli obiettivi anzidetti sarebbe in grado di acquisire allo Stato risorse ben maggiori di quelle che possono derivare dal “tassare due volte” i pensionati che, lo ricordiamo, hanno già il carico fiscale più alto in Italia (IRPEF, patrimoniali vere o mascherate, addizionali regionali e comunali, ecc.), come nei confronti degli altri Paesi europei, senza peraltro godere di alcun riguardo fiscale, con riferimento ai titolari di pensioni medio-alte, i più tartassati. E che beneficio ha prodotto il sacrificio imposto ai pensionati in questi anni, in particolare nel biennio 2012-2013, rispetto al nostro deficit annuale, ovvero rispetto alla montagna del debito cumulato negli anni, entrambi accresciuti durante il Governo Monti-Fornero?
  • La Corte, inoltre, si lascia trascinare dai cattivi legislatori in una sorta di “trappola”, quando cioè pare giustificare un criterio “di tipo reddituale” a sostegno del blocco della indicizzazione delle pensioni di maggiore importo, assimilando di fatto (anche se non in modo esplicito) la loro mancata rivalutazione ad una pretesa tributaria, ma in questo caso non sarebbero rispettati i due principi costituzionali (di cui all’art. 53 della Cost.), cioè la necessaria “universalità” del prelievo e la progressività dello stesso, infatti, nel caso di specie, c’è chi concorre, e chi no, alle necessità dello Stato e non c’è traccia di “progressività” tra chi percepisce il 100% della rivalutazione dovuta delle pensioni e chi lo 0%, o ancor meno dello 0%, essendo intaccato (con il cosiddetto “contributo di solidarietà” di tipo espropriativo, in aggiunta alla mancata indicizzazione) non solo il reale potere d’acquisto delle pensioni, ma addirittura incisa la misura nominale della pensione maturata e già sacralizzata con decreto dell’Ente gestore (INPS, ex INPDAP);
  • infine, l’obbligo costituzionale di cui all’art. 81 della Cost. (cioè il pareggio annuale di bilancio) preesisteva alla sentenza 70/2015, e le norme costituzionali di cui agli artt. 3, 36, 38, 53 e 136 sono le stesse in vigore ai tempi della sentenza 70/2015, come del decreto 65/2015, quindi delle due l’una, e cioè la sentenza 70/2015 non rispetta fedelmente principi e valori costituzionali vigenti, ovvero (come noi crediamo) non li rispetta il decreto 65/2015. E tuttavia la sentenza della Corte del 25/10/2017 tenta di conciliare l’inconciliabile, cioè di realizzare la quadratura del cerchio, vale a dire respingendo le censure di incostituzionalità del decreto 65/2015, sollevate da una quindicina di giudici delle diverse Corti regionali dei Conti del nostro Paese, a seguito di migliaia di nostri ricorsi e diffide.

Tutto ciò premesso e considerato, è giunto il tempo che anche la Corte costituzionale (ammesso che sia libera di attenersi ai principi e valori della Costituzione vigente, senza ridursi a strumento ancillare e complice del Potere) abbandoni ipocrisie ed ambiguità, riconoscendo che gli interventi recenti in materia previdenziale, in particolare quelli di cui alle leggi 247/2007, 214/2011, 147/2013 e 109/2015, equivalgono di fatto a prestazioni patrimoniali di natura sostanzialmente tributaria, al di là del nomen juris attribuito (de-indicizzazioni, contributi di solidarietà, ecc.), in quanto: doverose e coatte, non connesse ad un rapporto sinallagmatico tra le Parti, collegate esclusivamente alla pubblica spesa (vincoli di bilancio, riduzione della spesa previdenziale, ecc.). Oggi assistiamo invece allo scandalo che la legislazione previdenziale diventa strumento improprio per la politica dei redditi, della ridistribuzione delle risorse, quindi dello stesso assetto socio-economico del Paese.

Inoltre è giusto porsi anche il problema dei criteri di nomina dei giudici costituzionali che avviene,per lo più, secondo criteri di discrezionalità politico-partitica. Sarebbe infatti inquietante pensare che la recente “capriola” fatta dalla Corte costituzionale, su identica materia, avvenuta a distanza di poco più di due anni, sia dipesa solo dalle nomine dei Prof.ri Augusto Antonio Barbera e Giulio Prosperetti (avvenute nel dicembre 2015, mediante elezione parlamentare), dopo che gli stessi avevano pubblicamente criticato la sentenza 70/2015. Ma in questo modo la Corte perde ogni credibilità, se insegue l’input politico, sconfessando se stessa; se rinuncia al suo ruolo istituzionale di controllo sulla correttezza e coerenza del divenire legislativo in rapporto ai principi costituzionali; se interviene ex post a “coprire e giustificare” ogni disinvoltura dei legislatori; se i giudici “leggono” la Costituzione con gli occhiali della loro “parte” politica o convenienza partitica, ecc.

Il risultato di quanto anzidetto è che il legislatore (a chiudere il circolo vizioso) non rispetta più né lettera né spirito delle sentenze della Corte (come è avvenuto con il decreto 65/2015 rispetto alla sentenza 70/2015), nella convinzione la Corte stessa sarebbe poi intervenuta a “ricucire lo strappo”, come in realtà si è verificato con la sentenza 25/10/2017, di significato opposto, a giudicare dal comunicato stampa in esame.

Ugualmente era avvenuto con la legge Letta 147/2013, che ha riproposto in modo aggravato il contributo di solidarietà, già bocciato con sentenza della Corte 116/2013, poi re-intervenuta per “metterci una pezza”.

Ciò nonostante noi della CONFEDIR e della FEDER.S.P.eV. ( Federazione Sanitari Pensionati e Vedove/i) rimaniamo in campo a testimoniare valori e principi costituzionali, più e meglio forse degli attuali giudici, allarmando doverosamente la categoria rappresentata, specie in prossimità delle prossime elezioni politiche, con il grido: tremate pensionati, i “barbari” son tornati!

Speriamo ora che, almeno in Europa, le magistrature competenti, cui ci rivolgeremo, non abbiano subìto e non subiscano la stessa velenosa contaminazione, patita dalla nostra Corte, da parte della cattiva politica, capace di distruggere diritti e principi, indistintamente a danno di persone giovani o anziane.

Prof. Michele Poerio, Segretario generale CONFEDIR e Pres. Naz. FEDER.S.P.e V.

Dott. Carlo Sizia, Direttivo Naz. FEDER.S.P.e V.

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