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Spagna, come si è arenata la riforma costituzionale pro autonomia regionale

Nelle concitate ore del pomeriggio di venerdì, Mariano Rajoy ha saputo reagire immediatamente alla sfida di Carles Puigdemont anche grazie a un appoggio trasversale delle forze politiche spagnole. L’attivazione dell’articolo 155 della Costituzione, un unicum nella storia del Paese, è stata resa possibile dal pressoché unanime consenso, oltre che dei populares (PP), dei socialisti (Psoe), di Ciudadanos, di Podemos e di Coaliciòn Canaria. Tutti hanno ritenuto necessario che il governo reagisse con mano ferma all’affronto alla legalità degli indipendentisti. Eppure nei mesi scorsi alcuni di questi partiti avevano tirato per la giacca Rajoy per cercare una via di uscita dalla crisi meno dolorosa.

Da qualche anno infatti in Spagna ha ripreso terreno il dibattito su una riforma della Costituzione. Un tema che per decenni non è stato affrontato: il testo costituzionale del 1978 è assurto nell’immaginario politico e popolare spagnolo come il patto intoccabile di riconciliazione delle forze politiche all’indomani del regime franchista. Al 21 dicembre del 2011, quando Rajoy prese posto per la prima volta nel Palazzo della Moncloa, la Costituzione era stata modificata solo due volte. La prima nel 1992 per permettere ai cittadini europei di votare e candidarsi alle elezioni municipali spagnole. La seconda nel 2011 per mano del premier Luis Zapatero, che inserì nell’articolo 135 una disposizione sul fiscal compact non dissimile dalla legge costituzionale con cui Mario Monti ha inserito nella Costituzione italiana il pareggio di bilancio.

Durante il primo mandato di Rajoy i populares chiusero ad ogni dialogo su una riforma costituzionale. Solo durante la campagna elettorale del 2015 il premier spagnolo in cerca di una rielezione ruppe il ghiaccio aprendo all’eventualità di una riforma non solo per portare più Unione Europea nella Costituzione, ma anche per affrontare alcune “questioni territoriali”.

Il termine era vago, ma il riferimento chiaro: già all’epoca i separatisti catalani avevano promesso di passare una mozione in parlamento per attivare il lungo iter verso il referendum, e Rajoy aveva bisogno dell’appoggio politico delle forze di opposizione che da tempo chiedevano una riforma dello Stato federale. D’altronde il premier non aveva altra scelta che scendere a patti: con la rottura del sistema bipolare e l’entrata di nuovi partiti in parlamento come Podemos di Iglesias la questione costituzionale non era più solo nelle mani dei populares. L’art. 167 della Costituzione prevede infatti che un decimo del parlamento possa indire un referendum abrogativo per fermare una riforma costituzionale della maggioranza.

La riforma che i socialisti proponevano del 2014 in campagna elettorale non era poi così lontana da quella che di lì a poco il premier italiano Matteo Renzi avrebbe difeso fra piazze e talk show. Trasformazione del senato in una camera di rappresentanza territoriale, abolendo il voto bicamerale sulle leggi. Modifica del sistema di finanziamento delle regioni autonome per una maggiore flessibilità, inserimento delle denominazioni delle regioni autonome nel testo costituzionale, pur “senza alterare alcuna delle denominazioni geografiche”.

Il partito socialista non era l’unico a mobilitarsi per cambiare l’assetto federale a favore delle autonomie. Izquierda Unida proponeva addirittura il riconoscimento del diritto di autodeterminazione, l’abolizione dell’articolo 155, e infine di sbianchettare dalla Costituzione il riferimento all’ “unità indissolubile della nazione spagnola”. Più cauto l’allora segretario di Podemos Juan Carlo Monedero, che chiedeva di rendere vincolanti i referendum ai sensi dell’art. 92 e il diritto dei territori di “discutere della loro autodeterminazione”, ma non di avere un “diritto automatico all’autodeterminazione”.

La sconfitta di Matteo Renzi nel referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 mise in allarme Rajoy e i populares. Il vice-segretario Fernando Martìnez Duillo si spinse a definire ai microfoni di Antenna 3 i referendum come “l’opera del demonio”, perché “fanno fare alle persone il lavoro dei politici”. I socialisti non si persero d’animo, e continuarono la battaglia per cambiare la Costituzione. Unico ostacolo: i Ciudadanos di Albert Rivera, ostili da sempre a qualsiasi modifica della Carta che non riguardi l’immunità parlamentare e la riduzione dei mandati presidenziali a un massimo di due. Lo scorso giugno una comune dichiarazione di intenti fra Rivera e il leader dello Psoe Pedro Sánchez (nella foto con Rajoy) sembrava preludere a una bozza di riforma da sottoporre in parlamento e discutere in autunno.

I populares hanno fatto loro la proposta nel tentativo di fermare il referendum indipendentista in Catalogna. Soraya Sáenz de Santamaría, la vice-premier di ferro scelta da Rajoy per sostituire Puigdemont, sul finire di settembre invitava i catalani del PdeCat a bloccare la rivolta portando in parlamento un progetto di riforma costituzionale. Ma ormai è tardi: con lo strappo di Puigdemont di venerdì le forze politiche non hanno avuto altra scelta che rimandare a tempo indeterminato il dibattito costituzionale serrando le fila intorno al governo di Madrid.

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