Skip to main content

DISPONIBILI GLI ULTIMI NUMERI DELLE NOSTRE RIVISTE.

 

ultima rivista formiche
ultima rivista airpress

Cosa è rimasto del Global Trumpism? Parla il professor Mark Blyth

Un anno fa, mentre i principali sondaggi escludevano categoricamente una vittoria di Trump alle presidenziali, Mark Blyth, economista di orgini britanniche ed Eastman professor della statunitense Brown University, già parlava di “global trumpism”, un movimento globale iniziato con la Brexit che avrebbe potuto prendere piede in Europa. Formiche.net lo ha raggiunto al telefono per chiedere cosa è rimasto del movimento che ha portato Trump alla Casa Bianca.

Professor Blyth, lei è stato il primo a parlare di “global trumpism”. Crede ancora sia un fenomeno globale o è stato un cigno nero?

È la domanda del momento. È come una bolla finanziaria. Tutti se ne accorgono quando esplode. Ma quando la bolla raggiunge il suo massimo, c’è ancora chi discute se sia una bolla o meno. Io posso dire che il trumpismo non deve per forza essere un fenomeno strutturale, e di certo spero che non lo sia per l’Europa. Tutto dipende se sarà permesso ai fattori strutturali che lo hanno generato di tornare indietro.

Dove hanno sbagliato i democratici?

I democratici ancora non hanno capito perché hanno perso. Viviamo in un mondo in cui Donald Trump riconosce che ci sono buoni nazisti come buona gente di sinistra, esattamente come ha fatto a Charlottesville. Eppure grazie a questa uscita i sondaggi politici si sono mossi a suo favore più o meno dell’1% e quest’uomo ha un consenso solidissimo. Certamente più di quanto abbiano i democratici, nonostante il Russiagate e tutto quello che gli hanno scagliato addosso quest’anno.

Hillary Clinton ha una sua versione dei fatti, e la racconta nel suo nuovo libro, “What Happened”. Lo comprerà?

No, non leggerò neanche le recensioni (ride, ndr).

Cos’è rimasto dell’elettorato di Donald Trump dopo otto mesi? C’è disillusione?

No, e dove sarebbe? Ho qui davanti i sondaggi: da maggio a settembre Trump è passato da un consenso del 42% a uno del 49,2%. Per esserci disillusione ci deve essere un’alternativa che sia preferibile.

Secondo lei Trump sta pagando il fatto di non essere mai stato un leader del partito Repubblicano, un po’ come avvenne a parti inverse per Bill Clinton?

Esattamente. I primi anni dell’amministrazione Clinton erano un disastro. Non è riuscito a far nulla: nessuno stimolo, nessuna tassa sull’ambiente, nessuna riforma sanitaria, solo fallimenti. Lo stesso fino adesso Trump, eppure rimane solido nei sondaggi. Nel frattempo i democratici si occupano delle priorità dell’élite, come le politiche per i transgender e i diritti umani, e non sono neanche capaci di costruire una coalizione fra loro perché sono divisi in due: da una parte i neoliberali, che hanno guidato il partito per trent’anni, dall’altra l’ala di Bernie Sanders.

Possiamo dire allora che il problema di Trump non sono gli elettori ma il partito?

Certo, e la sua base lo sta capendo. Ha cercato di rifare la riforma sanitaria e i repubblicani glielo hanno impedito. Ha minacciato i dreamers e il DACA Act per i giovani immigrati, e poi si rivolge ai democratici dicendo: “Non devo farlo per forza se mi date una mano sulle tasse”. In pratica sta ottenendo di più dal dialogo con i democratici che con i repubblicani. Nel suo partito c’è chi crede che la tassa sui redditi sia immorale. È difficile fare una riforma fiscale con persone del genere. Questo significa che i democratici voteranno sulle tasse assieme ai repubblicani? No, voteranno con il loro partito e così faranno i repubblicani di Trump. Quelli veramente in pericolo sono i repubblicani che si trovano nel mezzo.

Cioè nessuno dei democratici voterà per la riforma fiscale?

Può essere che alcuni democratici votino a favore della riforma. Il problema di Trump è che dice due cose allo stesso tempo. Prima promette che abbasserà a tutti le tasse, specialmente per i milionari. E poi si corregge e dice che i ricchi non hanno nulla da aspettarsi perché questa riforma è per la classe media.

È vero che serve riformare il fisco americano perché le tasse sono troppo alte?

Non penso affatto che le tasse siano troppo alte. Penso che agli americani serva una riforma fiscale perché il codice fiscale è maledettamente complicato. Io sono un accademico e devo comunque dare a qualcuno 2500 dollari l’anno per pagare le mie tasse e inviarmi un documento da più di 200 pagine. Roba da matti.

Dove troveranno i soldi i repubblicani se non sono riusciti a rimpiazzare l’Obamacare?

Non li troveranno, non possono farla. I repubblicani, in media conservatori bianchi con più di 70 anni, hanno speso dieci anni ad incolpare Obama per tutto ciò che di sbagliato c’è al mondo. Non amano l’idea di un governo che paghi l’assicurazione sanitaria, la chiamano socialismo.

Come faranno a liberarsi della riforma sanitaria di Obama?

È un suicidio politico. Con l’Obamacare 25 milioni di persone hanno ottenuto l’assicurazione. Assumiamo che solo il 20% di loro, cioè 5 milioni, sia gravemente malato. Se uccidono l’Obamacare senza rimpiazzarlo, porranno fine prematuramente a 5 milioni di vite americane, più delle vittime di due Guerre mondiali e il Vietnam messe insieme. Come giustificare una cosa del genere? Basta mentire, e promettere che sarà rimpiazzata.

Posso immaginare cosa pensa del DACA repeal, visto che lei è un immigrato negli Usa. Ma per Trump è stata una piccola vittoria politica?

Certo che si. Semplicemente Trump ha preso centinaia di migliaia di vite vulnerabili in ostaggio, e poi ha detto: “chi vuole trovare un accordo?”. Trump è uno che dichiarerebbe vittoria anche se venisse sconfitto, e la gente gli crederebbe comunque.

Il presidente ha promesso di alzare i dazi e combattere la concorrenza sleale. È vero che la sopportazione delle aziende del manifatturiero americano è al limite?

Assolutamente si. Ma se guardi alle misure americane anti-dumping in questi mesi non è stato fatto molto. Un passo pesante sarebbe stato approvare la Border Adjustment Tax o affossare il Nafta. Trump ha capito il motto delle istituzioni Usa: crea delle coalizioni e assicurati di avere un partito politico dalla tua parte che sia pronto a seguirti. Non puoi semplicemente stralciare dei trattati perché sei il presidente e credi di averne l’autorità.

Trump ha picchiato contro la Cina tanto quanto aveva promesso?

No, perché sa di averne bisogno. Il 78% delle aziende che esportano dalla Cina negli Stati Uniti sono americane. Faccio un esempio. Gli americani adorano mangiare i gamberetti, chi non li adora? Bene, il 90% del pescato in America è importato dall’estero. E così un’enorme parte del settore agricolo si regge sulle importazioni da paesi come il Vietnam. Se imponesse delle tariffe distruggerebbe una parte enorme delle sue industrie.

Ma è vero o no che la concorrenza cinese ha distrutto il manifatturiero americano?

Non è così semplice. Alcune delle persone che circondano Trump, come Gary Cohn, sanno che l’effetto sul manifatturiero è iniziato alla fine degli anni’70, quando le persone si sono spostate da posti come il Wisconsin a Stati con più lavoro come la Florida e il Texas. Negli ultimi venti anni è stata l’automazione a distruggere il manifatturiero, non la Cina. Basta dare uno sguardo agli altri paesi sviluppati: in tutti lo share del manifatturiero in termini di Pil è crollato, e non tutti si sono fatti rubare i posti di lavoro dalla Cina.

Perché allora il Tycoon continua ad incolpare Pechino?

Se vuole usare la retorica della Cina per protestare va benissimo. Ma siamo sicuri che voglia far raschiare il fondo alle grandi industrie americane quando ha bisogno disperatamente della Cina per contenere la Corea del Nord? Non credo proprio.

A proposito di Corea del Nord, secondo lei alle tensioni seguiranno i fatti?

Il caso della Corea del Nord è affascinante, perché né gli americani né i cinesi hanno una soluzione. Se Hillary Clinton fosse presidente in questo momento, la Corea del Nord si starebbe comportando nello stesso identico modo e avremmo lo stesso tipo di conversazione. Magari la retorica sarebbe diversa: forse Kim non minaccerebbe di trasformare gli Stati Uniti in un parcheggio, ma cambierebbe poco. Trump ha capito che quando diventi presidente degli Stati Uniti il mondo trova il modo di imporsi su di te, e alla fine della giornata la tua agenda non sarà quella che ti eri prefissato.

×

Iscriviti alla newsletter