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Banca d’Italia, Matteo Renzi e il ruolo della politica nella nomina del governatore

visco

Siamo il Paese delle mammolette. Invochiamo l’indipendenza della Banca d’Italia dal Potere politico, leggi governo, Parlamento e Quirinale. Ci scordiamo, o facciamo finta di non saperlo, che la scelta del governatore dell’Istituto di Via Nazionale passa attraverso il Consiglio dei ministri e il presidente del Consiglio, di concerto con il ministro dell’Economia, che la sottopone, al Quirinale a cui spetta l’ultima parola con la firma del decreto. Cioè dalla politica e dai politici perché avviene attraverso il presidente del Consiglio e l’esecutivo formato il più delle volte al 99 per cento da politici o parlamentari e il capo dello Stato eletto dalle Camere, cioè da senatori e deputati arrivati in Parlamento al seguito dei partiti.

Insomma mettiamola giù come vogliamo ma la scelta del numero uno di Palazzo Koch è politica. E’ stato così per Ignazio Visco, è stato così per tutti gli altri governatori. Di questo sono stato personalmente testimone, non come giornalista, ma come addetto ai lavori, in quanto portavoce dell’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti alla penultima tornata elettorale per il governatore, quella dell’ottobre 2011. Il candidato diciamo così ministeriale era Vittorio Grilli, direttore generale di XX Settembre, un galantuomo. L’altro, Fabrizio Saccomanni, direttore generale di Bankitalia, portato dalla sinistra e laziale (scusate se non è poco) con supporter importanti in Forza Italia e Palazzo Chigi. Alla fine le due candidature si elidono e spunta uno dei tre vicedirettori di Via Nazionale, Ignazio Visco, napoletano che nulla ha a che fare con Vincenzo Visco, il più odiato ministro delle Finanze.

Il risultato della mediazione tra il presidente del Consiglio in carica, Silvio Berlusconi, e il Colle dove troneggiava Giorgio Napolitano. Ignazio Visco non sarà legato a Visco Vincenzo ma certo non è stato nominato dalla Spirito Santo come è accaduto del resto ai suoi predecessori. Ma questo non lo dico io che conto poco o niente, ma Giuliano Ferrara, che sul Foglio di ieri ha scritto: “La storia dell’autonomia della Banca centrale è una trovatina paramassonica di vecchio e impolverato conio. L’autonomia sta a Francoforte, dove non la tocca nessuno, e non a Palazzo Koch. Noi qui abbiamo una Banca che non è precisamente una banca, nel senso di centrale, perché non muove più la leva della creazione di moneta, non agisce sul tasso di interesse, non decide del controllo di inflazione e prezzi, non incide con strumenti monetari sulla crescita dell’economia. Quindi l’idea di difendere un vecchio fortino tecnico e burocratico dalla voracità della classe dirigente eletta sa di parrucconismo. E un po’ di parrucca e cipria ci sono sempre state anche allora, anche quando Bankitalia voleva dire La Malfa, voleva dire Guido Carli e Emilio Colombo in tandem, anche quando esistevano poteri forti coordinati da Enrico Cuccia e in genere si passava di lì per andare alla guida dell’esecutivo o al Quirinale. Di che stiamo parlando? Dove sarebbe l’analfabetismo costituzionale del giovane Renzi, emulo del vecchio Bettino, dell’archeologico Giulio Andreotti?”.

E vi assicuro non sono un renziano dell’ultima ora. Sono sempre Pippo e per quelli che stavano con me in gioventù nelle piazze o all’Università Lippo, dove con Giuliano eravamo su fronti diametralmente opposti. Pretendo però di non essere preso per i fondelli come milioni di italiani. Almeno questo.

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