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La nuova utopia saudita: Neom e più diritti

La salita al rango di Principe ereditario al trono saudita di Mohammed bin Salman, 32 anni, sembra aver liberato il paese, considerato la culla del tradizionalismo islamico, dai lacci del conservatorismo religioso. O almeno così sembrerebbe leggendo le pagine del dossier Vision 2030, in cui il figlio dell’attuale sovrano, noto anche come MBS, disegna il futuro di un’Arabia Saudita 2.0, moderata, aperta all’eguaglianza uomo e donna e all’innovazione nel campo dello sviluppo sostenibile.

Neom. Vetrina di questo processo di cambiamento è NEOM, una nuova città che il governo di Riyadh intende costruire sul Mar Rosso vicino al confine con la Giordania ed a pochi chilometri dalla costa egiziana. NEOM, un progetto che costerà 500 miliardi, in parte finanziati dalla cessione del 5% della compagnia petrolifera nazionale, dovrà essere, nell’ottica saudita, il polo mondiale dell’innovazione.

Una città creata apposta per attirare non tanto fondi di investimento o banche, ma aziende, know how internazionale e “sognatori”: tutti coloro che vogliono contribuire a migliorare l’umanità. Il risultato sembra una specie di nuova Silicon Valley nel cuore del Medio-Oriente, robotizzata, ecologica e tecnologica, la quale ha già attirato l’attenzione di colossi quale Virgin, Alibaba e Amazon.

Un paravento per nascondere la brutalità del regime, come sostengono i critici, o un reale progetto per lo sviluppo di un paese rimasto, nel 2017, ancorato a principi economici degli anni ’70?

La risposta è complessa, e lo stesso progetto/vetrina NEOM potrebbe trasformarsi nell’ennesima follia saudita, ma è vero che la salita al potere di MBS ha visto un aumento nel paese degli investimenti a favore della robotica, nell’energia solare (il paese intende arrivare alla completa eco-sostenibilità nella produzione energetica entro il 2030) e un radicale cambio nel posizionamento geopolitico del paese.

In fondo, dietro NEOM, gli investimenti e le riforme si nasconde la necessità saudita di diversificare l’economia a fronte di una stagnazione che ha già fatto schizzare in negativo il rapporto deficit-PIL.

Prima di tutto i soldi.  Al centro della nuova “visione saudita” ci sarebbe la necessità, per la nuova giovane leadership, di riconfigurare l’economia saudita. Questa, similmente a quelle degli altri paesi del Golfo, rimane ancorata alla produzione e commercio degli idrocarburi e cancellare la dipendenza del paese dal petrolio.

Due sono i principali aspetti negativi di tale mono-economia: la totale dipendenza dalle fluttuazioni del prezzo del petrolio, un rischio condiviso dagli altri paesi produttori, e, nel caso specifico saudita, la dipendenza dell’economia dagli equilibri geopolitici con l’Iran.

1) L’OPEC.

Per anni, il pilastro del potere saudita è stato l’OPEC, l’organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, un potente cartello in grado di manipolare in maniera autonoma i prezzi del greggio. Dopo più di sessant’anni di dominio quasi incontrastato, nel 2017 questo non è più il caso. I nuovi padroni sarebbero, infatti, la Russia e gli Stati Uniti.

Mosca è attualmente il principale produttore di petrolio (non gas) del mondo, in parte grazie alle proprie riserve ed in parte grazie ad una politica di acquisizioni molto aggressiva da parte di Rosneft. La compagnia di stato russa del petrolio, infatti, è stata capace, approfittando della debolezza degli Stati Uniti, di siglare accordi di “sfruttamento” diretto delle riserve qatarine, curde, iraniane, venezuelane e libiche, ovvero tutti le aree di “conflitto” tralasciate per scelta o impotenza, dalla nuova amministrazione statunitense.

Dall’altro lato, secondo un piano ormai trentennale, gli Stati Uniti sono riusciti a depotenziare la propria dipendenza dal petrolio OPEC, mediante la produzione dello “shale oil”. Proprio l’olio di scisto che gli ha permesso di pompare, sul mercato mondiale, barili su barili di petrolio, a basso costo e a danno dell’Arabia Saudita.

2) IRAN E HORMUZ

I principali effetti della perdita del controllo del prezzo del petrolio si sono visti nel 2014, con la crisi dei prezzi del greggio, dovuta in parte al deflagrare del conflitto siro-iracheno e in parte proprio all’aumento di produzione dello shale oil statunitense. Tale crisi ha messo in luce la debolezza dell’Arabia Saudita, che ha visto il proprio rapporto deficit-pil passare dal 12% del 2011 al -17.2% del 2016.

A questo si uniscono le nuove tensioni con l’Iran. Teheran, guarda caso con i “nuovi nemici” del Qatar e l’Oman – altro paese riluttante ad accettare la supremazia regionale di Riyadh – controlla il traffico mercantile dello stretto di Hormuz dove passano 18.5 milioni di barili di petrolio saudita al giorno: più del triplo di quanto ne passino dal canale di Suez (5.5 milioni). A fronte dell’espansionismo iraniano in Siria, Iraq e Yemen, i Sauditi si sono così trovati sempre più isolati in Medio-Oriente e, soprattutto, sempre più a rischio di un “controllo” di Teheran sul proprio export.

Arabia Saudita 2.0. 

Differenziare la propria economia è diventata così una necessità più che una possibilità per i Sauditi soprattutto dopo aver assistito al “trionfo” in materia di immagine degli Emirati Arabi (su tutti Dubai) e del Qatar, entrambi poli attrattivi per i grandi poli finanziari oltre a “esempi”, nonostante le tante zone d’ombra dei rispettivi sistemi, di uno sviluppo economico complementare al petrolio.

Come a Dubai, infatti, la nuova “rotta” economica saudita dovrà passare, come ha descritto bin Salman, anche dall’emancipazione femminile. Le donne, pur fra le mille limitazioni imposte dalla Sharia, rappresentano il maggior numero di laureati in Arabia Saudita.

Sarebbero loro la chiave per potenziare il mercato interno necessario per sostenere un’economia non più limitata al commercio petrolifero. Proprio da questo potrebbe nascere il principale ostacolo di Bin Salman arriva, però, dall’interno del paese, ovvero il tradizionalismo popolare legato al Wahhabismo, ancora forte in molti strati della popolazione. Solo se il futuro sovrano riuscirà ad arginare queste tendenze ed evitare che si trasformino in una nuova ondata terrorista, l’Arabia Saudita potrà cambiare.

Per ora rimangono le critiche ad un regime autoritario, scarsamente democratico. Il rischio è che le “riforme” rimangano una facciata, un supporto “mediatico” ad una politica estera più aggressiva, oltre che un modo per salvare il trono saudita.

 

Precedentemente pubblicato dall’autore su il Caffè e l’Opinione

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