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Che cosa farà ora Luigi Di Maio?

Luigi Di Maio, Silvia Virgulti

I 5stelle hanno compreso tardivamente il mood della politica. Vale a dire quell’umore profondo che regola i complessi meccanismi della rappresentanza. Ne governa i possibili risultati, offrendo la palma della vittoria a coloro che, meglio di altri, ne hanno saputo intercettare le tendenze. Ed ecco allora, dopo la bruciante delusione delle elezioni siciliani, dismettere il vestito del “vaffa day” e cercare muove issues, nuove frecce con cui mirare al bersaglio più grosso. Ci si interroga su nord e federalismo, sulle partite IVA, sui livelli di tassazione e sui flussi d’immigrazione. Temi, che fino a ieri, erano del tutto trascurati o solo adombrati. Completamente oscurati dal grido “onestà – onestà”. Uno slogan che, dopo i casi di Roma e di Torino, si è trasformato in un boomerang, mostrando il vero volto dell’approssimazione. E la disinvoltura con cui il “non statuto” viene piegato alle esigenze del momento. Che fine hanno fatto le regole sull’incompatibilità, di fronte all’emergere dell’azione della magistratura?

Non sarà una conversione facile. Certe proposte non si improvvisano. Richiedono un vissuto che non è nelle corde dei militanti. Né, tanto meno, in quello dei dirigenti, sebbene selezionati con una cura maggiore. Massimo Colomban, solo per fare un esempio, nella sua breve permanenza nella Giunta romana, doveva presentare un complesso piano di riordino delle municipalizzate della Capitale. Che fine ha fatto quel progetto? Non è dato sapere. Ed il concordato preventivo in continuità dell’Atac? Anche in questo caso, i movimenti sono di una lentezza esasperante, mentre la Capitale soffoca in un dissesto annunciato. Ben più grave della pur drammatica situazione ricevuta in eredità dalle passate Amministrazioni. Le cui forze politiche di riferimento – basti pensare ai risultati elettorali di Ostia – pagano un prezzo salato.

Non basta, quindi, mostrare al mondo la propria verginità per governare un Paese come l’Italia o qualsiasi altra Regione colpita al cuore dalla crisi. Per risultare credibili nell’azione di governo e di cambiamento, occorre presentarsi nudi di fronte all’elettorato. Mostrare i segni delle lunghe notti passate sui libri. I calli di chi ha speso un’intera vita nel lavoro quotidiano. La forza di chi ha saputo costruire imprese o avviare una professione di successo. Non serve, in altre parole, predicare l’assistenzialismo – leggi il reddito di cittadinanza – oppure baloccarsi con le tesi della decrescita felice o del pauperismo. Quasi che il merito fosse una bestemmia impronunciabile. Né serve attestarsi sulla frontiera del “pubblico è bello”, quando, invece, è vero l’esatto contrario. Oppure rifiutare il rischio, com’è avvenuto per le Olimpiadi, per paura che qualcuno potesse approfittarsi della possibile fase di espansione dell’economia cittadina. Sarebbe come proibire il cenone di capo d’anno, temendo che qualcuno potesse rubare le posate.

Come il nuovo look propositivo possa conciliarsi con questo retroterra, che ha rappresentato l’indubbio successo del Movimento, rimane un grande mistero. Si può, naturalmente, tentare di sporcarsi le mani con le scelte, sempre dolorose, del governo possibile. Ma questo richiede una conversione di 180 gradi ed un’autocritica feroce dei fallimenti acclarati. Luigi Di Maio vuole essere credibile in questa sua nuova veste? Ed allora prenda di petto il caso Virginia Raggi: fino alle estreme conseguenze. Se questo non avverrà, il resto sarà solo fuffa. Di cui gli elettori saranno in grado di avvertirne lo sgradevole odore.

Ma perché quest’improvviso cambiamento di umore, dopo le mille parole spese su miracoli annunciati? Risolveremo noi i problemi del Paese, quando conquisteremo Palazzo Chigi: questo il leitmotiv di un’assillante propaganda. Che, ovviamente, non ha funzionato. A monte non ci sono solo i deludenti risultati elettorali, frutto di una vocazione solipsista. Ma la percezione che qualcosa sta cambiando nelle strutture più profonde della società italiana. Quel barlume di ripresa che si intravede all’orizzonte è ancora troppo poco. La sua fragilità è, al tempo stesso, evidente e preoccupante. Ma anche la dimostrazione che la crisi italiana ha radici ben più complesse rispetto alla semplice denuncia delle carenze di una vecchia classe dirigente. Che pure sono evidenti.

Se fosse questa la causa esclusiva, saremmo ancora fermi. Ed invece qualcosa si muove. Il clima internazionale, dopo una lunga crisi, è migliorato. Dallo scorso novembre la borsa italiana è cresciuta di quasi il 38 per cento. Certo: non è tutto oro quello che luccica, tuttavia il crollo, ch’era iniziato nel 2015, non solo si è arrestato. Ma il recupero è stato quasi totale. Il Pil, a sua volta, mostra il segno “più” da diversi trimestri. E’ ancora troppo poco. Il passaggio dalla semplice ripresa alla crescita strutturale richiede interventi che sono fuori dalla portata di questo governo. Ma la confutazione della tesi che basti un cambiamento dell’establishment politico, per portarci nell’El Dorado, è evidente. Un cambiamento dovrà esserci, ma nel segno opposto alla tradizionale predicazione grillina. Che possono, ovviamente, convertirsi sulla via di Damasco. Ma se nella storia un avvenimento del genere è capitato solo una volta, una qualche ragione vi deve pur essere.

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