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Che cosa cambierà per Berlusconi, Grillo e Renzi dopo il voto in Sicilia

La domanda è: il risultato delle elezioni siciliane quanto influenzerà le forze politiche in vista della competizione nazionale? Premesso che forse è stata data troppa importanza a un turno elettorale in cui si è votato in una sola regione dove oltretutto si reca alle urne meno del 50% dei cittadini (l’affluenza è stata del 46,76%), qualche indicazione questo voto la regala. Iniziamo col dire che per il Movimento 5 Stelle non cambierà nulla: il candidato Cancellieri ha ottenuto un ottimo risultato (34,8%) e M5S alla fine è risultato il primo partito sull’isola. Tutta benzina nel motore del partito di Beppe Grillo, che viaggia spedito verso le Politiche con Luigi Di Maio candidato premier. E se Di Maio poteva forse evitare la figuraccia del mancato confronto con Matteo Renzi di martedì sera da Giovanni Floris, il cammino dei grillini non ne sarà più di tanto infastidito. Perché da qui al voto gli unici bastoni tra le ruote per il Movimento potranno arrivare soltanto dalla mala amministrazione delle città e dai magistrati: Raggi e Appendino, solo i loro guai amministrativi e giudiziari rischieranno di far perdere qualche voto al M5S.

Anche per il centrodestra poco cambia: Berlusconi, Meloni e Salvini hanno trovato la conferma ulteriore che, se si presentano uniti, hanno reali possibilità di vittoria. Il successo di Nello Musumeci rispetto al 2013 insegna proprio questo: gli elettori, anche quelli di centrodestra, vogliono trovarsi di fronte a scelte politiche chiare. E premiano chi è capace di coalizzarsi, rimanere unito e presentare programmi credibili. La loro unica difficoltà rispetto al passato è che i tre leader non si amano. Come ha dimostrato la grottesca cena a tre andata in scena nottetempo in un ristorante di Catania, Berlusconi, Meloni e Salvini fanno addirittura fatica a mettersi d’accordo per sedersi al desco insieme. Figuriamoci governare. In vista delle Politiche, però, dovranno fare buon viso a cattivo gioco: tenere in piedi una coalizione traballante, ma che al momento è l’unica esistente nel Paese. Se riusciranno a trasmettere agli elettori una parvenza di unità e a presentare un programma credibile, tutto (le divisioni della sinistra e l’isolamento dei 5 Stelle) gioca a loro favore. E il fatto di non dover per forza indicare un candidato premier (la legge elettorale non lo prevede) li sottrae al gioco al massacro della leadership: ognuno si presenterà come capo del proprio partito e poi, chi prenderà più voti, esprimerà il presidente del consiglio. Come vanno ripetendo da tempi i capataz berlusconiani, sicuri che alla fine sarà Forza Italia a vincere il derby interno al centrodestra.

I veri problemi stanno a sinistra. Intendiamoci, la sconfitta di Fabrizio Micari era ampiamente prevista almeno da quando è sfumata l’alleanza e la candidatura unitaria con Mdp e Sinistra italiana. Però non s’immaginava questa portata. Mentre si stanno completando gli scrutini nelle ultime sezioni, va profilandosi un distacco di una ventina di punti tra Musumeci (39,1%) e Micari (18,8%), con un Claudio Fava al di sotto delle previsioni (6,2%). I numeri ci dicono che, anche se il centrosinistra si fosse presentato unito, probabilmente avrebbe perso. L’avverbio è d’obbligo, perché in politica questi conteggi non si possono mai fare. Dimostrando unità e compattezza, e magari presentando un candidato più forte, non è detto che il centrosinistra fosse destinato a sconfitta certa. Anzi. Matteo Renzi in queste ora l’ha detto chiaramente: “Se fossimo stati uniti e Grasso avesse accettato di candidarsi, si poteva vincere”. Parole che hanno avuto il merito di far infuriare Mdp e pure Pietro Grasso. “Non mi si può addossare la colpa della sconfitta in Sicilia”, ha replicato con sdegno il presidente del Senato.

Ora, però, cosa accadrà? Il risultato siciliano mostra la strada: stare uniti, allearsi. Per questo Renzi torna a parlare di alleanza e coalizione larga. Il problema è che neanche lui sembra crederci davvero. Il motivo, come ripetuto anche in queste ore da Bersani & C, è che per costruire un’alleanza col Pd Mdp chiede una sterzata nelle politiche economiche del governo Gentiloni e un passo indietro di Renzi come candidato premier. Non può essere lui, per Mdp, l’uomo da presentare per Palazzo Chigi. Due condizioni che al Nazareno giudicano inaccettabili, specialmente la seconda.

Inoltre bisogna vedere se la sconfitta siciliana farà rialzare la testa alla minoranza Pd. Orlando e Cuperlo avranno la forza di rimettere in discussione la segreteria Renzi a pochi mesi dal congresso? Che farà Dario Franceschini? Riusciranno Orlando, Cuperlo e lo stesso Franceschini a rimettere in discussione la leadership renziana o perlomeno a limitarne lo strapotere, spingendo magari sul nome di Gentiloni come possibile candidato premier?

E’ questa la risposta che Bersani, D’Alema e Speranza attendono dall’interno del Pd. Una resa dei conti dove la slavina potrebbe diventare valanga e travolgere i sogni di gloria dell’attuale segretario. La strada è molto stretta, ma i movimenti interni al Pd ci sono: tra qualche giorno si terrà una direzione che si prevede infuocata. Ma non è assolutamente detto che il malcontento porti a qualche risultato. L’ipotesi che Pd e sinistra più radicale vadano divisi anche alle Politiche rimane la più accreditata. Col rischio di perdere, com’è avvenuto in Sicilia.

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