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Perché l’Europa non è pronta a fare a meno degli Stati Uniti. Report ECFR

Due rapporti per misurare lo stato di salute dell’immagine pubblica di Donald Trump. Il primo, “The Transatlantic Meaning of Donald Trump”, porta la firma dell’European Council of Foreign Relations (ECFR) e del suo direttore della Ricerca Jeremy Shapiro, già consigliere del Segretario di Stato Usa. Il secondo, dal titolo “What Americans Think about America First”, è frutto di un meticoloso sondaggio condotto oltreoceano nell’America di Trump da parte del Chicago Council on Global Affairs (CCGA), che fotografa un malcontento diffuso nei confronti della nuova amministrazione, anche fra i supporters più accaniti dell’imprenditore che ha scalato Capitol Hill.

Entrambe le ricerche sono state presentate martedì al Centro Studi Americani da Shapiro, Dina Smeltz, autrice dello studio per il CCGA, assieme al giornalista del Financial Times James Politi e alla direttrice dell’Aspen Institute Marta Dassù. Lungi da qualsiasi pretesa di esaustività, d’altronde Trump ha dimostrato abbondantemente di saper smentire i sondaggi più funerei, i due rapporti seguono il volo in picchiata del consenso intorno al Tycoon da una sponda dell’Atlantico all’altra, dalle constituences repubblicane sul piede di guerra fino alle cancellerie europee che ancora non hanno metabolizzato il riassetto della Casa Bianca.

Il sondaggio del Chicago Council ci consegna l’immagine di un’America ancora fermamente liberista e fiduciosa nelle istituzioni multilaterali (non mancano i mugugni per il ritiro dall’Accordo di Parigi sul clima), ma anche più sensibile all’interesse nazionale, e non priva di preoccupazioni per gli effetti collaterali che una globalizzazione sfrenata può avere sull’occupazione. Le interviste sugli elettori americani condotte sull’elettorato statunitense mostrano un entusiasmo calante di molti storici supporters del Gop: “L’America First propinato da Trump viene abbracciato da una minoranza di convinti sostenitori del presidente” spiega Dina Smeltz, senior fellow del Chicago Council. E in effetti dai dati emersi poco o nulla del programma implementato dalla nuova amministrazione sembra entusiasmare l’elettorato. O meglio, le promesse elettorali di Trump continuano a scaldare i cuori di alcuni agguerriti gruppi di pressione, ma non riescono a diventare mainstream.

Lo studio dell’ECFR condotto da James Shapiro e Dina Pardijs pone una domanda alle cancellerie europee a un anno dalla vittoria di Trump: davvero i tempi sono maturi perché l’Europa si emancipi dall’influenza statunitense, così da farsi posto fra le grandi potenze? Un interrogativo particolarmente attuale, mentre l’UE muove (lentamente) i primi passi per un sistema di difesa autonomo (PESCO). La risposta è da cercarsi nella catena di reazioni che l’elezione di Trump ha scatenato oltreoceano. A partire dall’“effetto reggenza”: la (mal riposta) speranza della maggior parte delle potenze europee, Italia, Germania e Regno Unito in testa, di un commissariamento dell’amministrazione Trump da parte dei suoi “reggenti”, quelli che la stampa internazionale ha chiamato “i normalizzatori”.

Un po’ come avvenne per re Giorgio III di Inghilterra sul finire del XVIII secolo, creduto pazzo dalla corte britannica e presto sostituito nelle sue funzioni effettive dal principe del Galles, le élites europee “sperano che, piuttosto che governare, Trump sia governato dai suoi consiglieri, il Congresso, i tribunali, e la società civile americana nel suo insieme”. Segue l’ “effetto Messia”: la vittoria politically uncorrect di Trump avrebbe ringalluzzito i partiti anti-establishment europei (vedasi la Lega Nord di Salvini, che per non perdere tempo si è fatta trovare pronta con migliaia di cappellini clonati da quelli dei rally trumpiani negli States), ma anche paesi come l’Ungheria di Viktòr Orban, “che è sicuro che la vecchia età del politically correct sia finita per sempre”. In Europa c’è infine chi, scrive Shapiro, ha visto in Trump l’”AntiCristo”, e ha saputo capitalizzare alle elezioni la demonizzazione del nuovo presidente statunitense: è il caso di Emmanuel Macron, reduce da una schiacciante vittoria sulla pupilla di Trump Marine Le Pen.

L’enorme impatto che la vittoria del Tycoon ha avuto sugli assetti di politica estera e interna dei Paesi europei basta da sé per provare che l’Europa ancora dipende in larga misura dagli Stati Uniti. “È il concetto fondamentale di soft power” chiarisce Shapiro al Csa, “un potere che la Cina e la Russia non possono vantare allo stesso modo”. Sembra dunque azzardato parlare di un’Europa “pronta a sostituire il potere statunitense nel mondo”. Così, conclude l’esperto, “pensare addirittura di europeizzare il Consiglio di Sicurezza dell’Onu è pura utopia, mentre non è irrealistico costruire una politica estera europea comune, anche se non accadrà nel breve periodo”.

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