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Arabia Saudita, tutti i timori sui capitali off-shore degli arrestati

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Politica interna, affari internazionali e finanza si intrecciano in una matassa difficile da sbrogliare per gli investigatori di Riyadh, a due giorni dalla mastodontica operazione anti-corruzione in Arabia Saudita che ha portato all’arresto di 201 persone, fra cui 11 principi plurimilionari e 38 ufficiali. L’obiettivo dell’ondata di purghe richiesta dal principe erede al trono Mohammed bin Salman è, formalmente, quello di cambiare il volto dell’Arabia Saudita mettendo fuori gioco i corrotti e i fondamentalisti wahabiti per intraprendere il sentiero dell’Islam moderato. Ma dietro al repulisti generale di queste ore si celano ben altri disegni, secondo alcuni osservatori: non solo una non indifferente pressione dell’amministrazione americana, che vede di buon occhio il successore al trono saudita, ma anche una radicale riforma dell’economia saudita da tempo auspicata dal principe, per rompere il monopolio petrolifero e diversificare le entrate (Qui l’articolo di Formiche.net sul tema).

Scattate le manette per i businessmen e i membri della famiglia reale accusati di corruzione, estorsione e riciclaggio, adesso gli investigatori sauditi lavorano alacremente per congelare i fondi degli arrestati. Fino ad oggi 1700 conti correnti sono stati bloccati dal governo. Il re Salman ha costituito per l’occasione il comitato anti-corruzione dotandolo di ampli poteri giudiziari con un decreto regio. Setacciare le banche e i fondi di investimento all’interno del Paese non sarà però sufficiente. Una ricerca di settembre del National Bureau of Economic Research riportata da Reuters ha infatti rivelato che il 55% del Pil nazionale saudita (circa 300 miliardi di dollari) si trova in conti offshore tenuti al sicuro in paradisi fiscali, la Svizzera sopra tutti, ma anche Panama, le Virgin Islands e il Jersey. Così Rihad è costretta a bussare alla porta delle banche estere per riportare a casa i capitali parcheggiati. Un test cruciale per sondare l’autorevolezza dei sauditi presso le cancellerie europee e non, ma soprattutto per mettere alla prova la solidità della coalizione del Golfo.

I primi a dover rispondere alle richieste del comitato anti-corruzione saudita sono infatti gli Emirati Arabi Uniti. In questi giorni le autorità emiratine hanno il fiato sul collo delle banche chiedendo informazioni, senza fornire spiegazioni, sui conti di 19 cittadini sauditi, fra cui il principe miliardario Alwaleed bin Talal e l’ex capo della Guardia Nazionale Miteb bin Abdullah, non a caso tutti nella lista degli arresti in Arabia Saudita. Lo racconta a Reuters un gruppo di manager di banche commerciali sotto anonimato, lamentando le intrusioni della banca centrale, che secondo loro risponderebbe a precise richieste di Riyadh. Dei 7 emirati che formano il Paese, Dubai in particolare da anni fa da forziere per i capitali sauditi. Dal grado di cooperazione che sarà fornito all’Arabia Saudita dagli emiratini e dagli altri Paesi del Golfo che ospitano capitali off-shore dipende l’equilibrio regionale creatosi in giugno con l’embargo e l’esclusione del Qatar dal Consiglio.

Mentre il principe bin Salman, a capo del comitato, cerca di riparare ai buchi miliardari lasciati in passato dalla fuga dei capitali off-shore, le autorità saudite devono frenare al più presto l’emorragia finanziaria iniziata con le purghe e gli arresti di questa settimana. Da giorni infatti è in atto un fuggi fuggi generale dei patrimoni dei miliardari sauditi che temono un congelamento da parte delle autorità. Un nutrito gruppo di sceicchi, confida a Bloomberg una fonte anonima, ha iniziato una corsa contro il tempo per trasformare il proprio patrimonio in cash o titoli liquidi e trasferirlo in altri Paesi del Golfo prima che gli investigatori facciano irruzione nelle banche saudite. Già si contano i danni del flusso in uscita dal Paese. A cominciare da un deprezzamento del ryal saudita dello 0,8% rispetto al dollaro, un picco superato solo l’anno scorso con la crisi petrolifera. L’instabilità regionale preoccupa poi gli investitori del Golfo, che solo nella giornata di martedì hanno venduto azioni di Dubai per 92,5 milioni di dollari.

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