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Vi spiego i veri dossier ad alta tensione fra Stati Uniti e Cina

cina dazi

È un viaggio molto lungo, ma ancor più complesso e decisivo, quello che il presidente statunitense Donald Trump sta compiendo in Asia. Dodici giorni per visitare la Corea del Sud, il Giappone, la Cina, il Vietnam e le Filippine.

L’assetto in Asia, ed in particolare il rapporto a due tra Cina e Stati Uniti, sono la chiave di volta del nuovo secolo geopolitico, a cent’anni dal primo conflitto mondiale; un secolo eminentemente “asiatico”, così come il Novecento fu tutto “europeo”.

La Cina comunista, divenuta un gigante economico in appena un quindicennio, dopo l’ingresso nel Wto, rappresenta il principale antagonista globale degli Usa: approfitta della libertà dei mercati, garantiti da trattati multilaterali, per estendere il proprio ruolo. Non solo attraverso la Nuova Via della Seta (Obor), ma anche per via dei rapporti energetici stretti con la Russia e della costituzione del Gruppo dei BRICS insieme a quest’ultima, ad India, Brasile e Sud Africa. È una alleanza politica che si pone come alternativa al G7 sul piano della popolazione, della produzione e del commercio e soprattutto del potenziale di crescita.

Dal punto di vista militare, la rinnovata minaccia nucleare nordcoreana non è che la tessera di un mosaico che si ricompone continuamente. Richiama le relazioni ed i conflitti secolari nell’Estremo Oriente e quelli tra quest’ultimo e l’Occidente. Per la Cina, la Corea ha rappresentato sia lo snodo di accesso dell’invasione giapponese subita ai primi del Novecento, sia l’argine invalicabile opposto all’invadenza americana negli anni Cinquanta. È una frontiera decisiva.

Lo scacchiere orientale riproduce quello determinatosi ad Occidente dopo la fine della Seconda guerra mondiale: da una parte sono assimilabili i ruoli di Giappone e Germania, entrambi potenze militari sconfitte duramente dagli Usa, private di ogni ruolo politico globale e trasformate in pivot meramente economici; dall’altra quelli dell’URSS e della Cina, alleate degli Usa nella guerra contro l’Asse, ma poi divenute nemiche in quanto rette da regimi comunisti, vista la sconfitta dei nazionalisti cinesi di Chiang da parte dei comunisti guidati da Mao.

Anche ad Oriente, geopolitica e geo-economia sono fortemente intrecciate. Di più, il rapporto di forza degli Usa con il resto del mondo non può essere misurato solo in termini di basi militari in giro per il mondo e di flotte che dominano i mari: ci sono alcuni aspetti negativi dell’economia americana che continuano ad essere sottovalutati, e che determinano crisi cicliche che si percuotono ciclicamente sulla stabilità economica, finanziaria e politica internazionale. Infatti, mentre i mercati festeggiano i sempre nuovi record di Wall Street e la crescita dell’economia reale che si presenta stabile e sostenuta, il deficit estero americano continua a segnare un profondo rosso: nel comparto dei beni e servizi, è stato pari a -490 miliardi di dollari nel 2014, -500 miliardi nel 2015, -505 miliardi nel 2016. La posizione finanziaria internazionale netta degli Usa è peggiorata a vista d’occhio, passando dai -1.279 miliardi di dollari nel 2007, ai -5.372 miliardi nel 2013, ai -8.318 miliardi nel 2016. Il debito verso l’estero aumenta al ritmo di mille miliardi di dollari l’anno. I due grandi investitori tradizionali sono fermi: le detenzioni cinesi di titoli federali statunitensi sono ferme dal giugno del 2016 al livello di 1.200 miliardi di dollari; quelle del Giappone ristagnano attorno ai 1.100 miliardi.

Mai come in questi mesi il tradizionale ruolo del dollaro, principale moneta per le transazioni internazionali e strumento di riserva per eccellenza, sembra essere messe in discussione dalle prospettive di un petro-yuan garantito dall’oro.

Il pressing di mezzo secolo contro l’URSS portò alla sua caduta: si era dissanguato per sostenere, difendere e rendere sempre più numerosi i regimi comunisti nel mondo. Ad Oriente, oggi, è tutto più complesso, perché la Cina tratta con l’estero e va all’estero solo per far soldi: si confronta con il capitalismo occidentale usando il suo stesso schema imperialistico. La crisi coreana serve agli Usa per creare spazi di manovra negoziali, sia sul piano delle alleanze militari, creando vasi comunicanti con altri scacchieri come quello mediorientale, sia sul versante economico.

Sul piano economico, il mercato americano dà lavoro, redditi e profitti a mezzo mondo, ma sono acquisti fatti a debito. All’America serve una crescita economica sostenuta, ma che non amplifichi ancora l’import, come potrebbe accadere con i tagli alle tasse previsti dalla riforma all’esame del Congresso. Il deficit commerciale con la Cina è già enorme: rappresenta oltre il 60% del totale, con 315 miliardi di dollari nel 2014, 334 miliardi nel 2015, e 309 miliardi nel 2016. Al confronto, quello verso il Giappone è un’inezia, fermo intorno ai -50 miliardi di dollari annui. Con la Corea del Sud il passivo è fra i 15 ed i 18 miliardi di dollari l’anno. Con ciascuno dei partner incontrati, nella Corea del Sud, in Giappone ed in Cina, il Presidente americano ha messo sul tappeto sempre lo stesso refrain: rebalancing. A Seoul aveva affermato che la Corea del Sud sta uccidendo l’America, per via di un trattato di libero scambio (KORUS) mal congegnato da parte dell’allora Segretario di Stato Hillary Clinton: determina uno sbilancio inammissibile, che va colmato. Anche a Pechino, ha ripetuto lo stesso concetto: “Io non ce l’ho con voi cinesi, fate i vostri interessi ed è giusto così per voi, avete un grande successo. La colpa è delle passate Amministrazioni Usa che non hanno difeso gli interessi della nostra industria e dei nostri lavoratori”.

Quattro assunzioni tradizionali, ad un tempo stesso politiche ed economiche, secondo Trump non sono più valide, o comunque non sono più favorevoli all’economia americana. Il “free trade” non basta da solo ad assicurare una crescita economica equilibrata a livello globale, ed è quindi illusorio puntare su nuovi trattati multilaterali di liberalizzazione commerciale, come il TPP ed il TTIP che erano stati tanto sostenuti dalla Amministrazione Obama. I flussi di capitale reimpiegati attraverso i normali mercati finanziari dai Paesi eccedentari in quelli deficitari non sono idonei, anche per via delle immodificabili strutture socioeconomiche che caratterizzano le diverse realtà, ad innescare processi automatici di riequilibrio. I consueti meccanismi di aggiustamento, attraverso la svalutazione monetaria, incidono marginalmente sulla competitività commerciale mentre abbattono drasticamente il valore degli investimenti detenuti dall’estero e la fiducia. Infine, ha preso atto che gli Usa non possono più risolvere i propri problemi usando il potere di egemonia che avevano negli anni Ottanta nei confronti dei Paesi europei e del Giappone: non possono più convocare all’Hotel Plaza di New York le delegazioni dei Paesi con cui hanno un passivo commerciale strutturale, dalla Cina al Giappone, dalla Germania alla Corea, per imporre loro le politiche inflattive necessarie per riequilibrare i conti esteri americani.

Al radicale ripensamento americano sulle virtù taumaturgiche del mercato, ha corrisposto un ulteriore affinamento della “dottrina del socialismo con caratteristiche cinesi”. Durante il recentissimo Congresso del Partito comunista cinese, che ha confermato Xi Jinping alla guida del Paese, si è deciso che per la “nuova era” servono quattro principi comprensivi: la costruzione di una società moderatamente prospera, il rafforzamento delle riforme, il governo della nazione secondo la legge, il rigido controllo del Partito. Non si tratta, in quest’ultimo caso, solo di lottare efficacemente contro la corruzione, quanto di assicurare la giustizia sociale e di guidare politicamente le decisioni strategiche delle imprese e la ricerca scientifica: non possono essere lasciate al solo metro del profitto. Occorre inserire la Costituzione del Partito Comunista nello Statuto delle imprese ed invitare le cellule del Partito negli organi direttivi ed amministrativi.

Dal controllo statale sul capitale, si passa a quello politico sulle decisioni aziendali. Sembra quasi che si voglia esorcizzare la prospettiva di multinazionali private cinesi che, al pari di quelle odierne occidentali, perdono progressivamente ogni legame con gli interessi nazionali e recidono ogni vincolo d’interazione con la politica. Le multinazionali americane sono fantasmi inafferrabili solo da Washington: quelle della tecnologia, ad esempio, si sono già materializzate a Pechino, costrette a trattare. E lo fanno direttamente, quasi da Stato a Stato, tanto sono potenti ed autonome: nessuna di queste, infatti, fa parte della delegazione commerciale che si è mossa al seguito di Trump.

Il mercato internazionale si muove all’interno delle regole stabilite dai trattati multilaterali di liberalizzazione, che hanno messo in competizione mercati ricchi e produttori a basso costo. I primi comprano, i secondi no: lo squilibrio era inevitabile. Donald Trump aveva fondato la sua campagna elettorale sulla necessità di riequilibrare i rapporti commerciali con l’estero, rinunciando al TPP ed al TTIP, sottolineando la asimmetria tra la completa apertura del mercato americano e la continua chiusura di quelli corrispondenti, denunciando la manipolazione del cambio da parte della Cina, e minacciando la introduzione di tariffe doganali fino al 45%. Dopo essere stato eletto, ha puntato piuttosto al rafforzamento della cooperazione, al riequilibrio commerciale su base bilaterale, mediante appositi trattati, tutti ancora di là da venire.

La contraddizione, tutta interna agli Usa, continua. Donald Trump si lamenta delle scelte compiute dalle precedenti amministrazioni, tutte favorevoli alla apertura al mercato in vista di una maggiore prosperità dell’America, che in realtà si sono rivelate contrarie agli interessi dei lavoratori e delle famiglie statunitensi. I grandi vantaggi, gli enormi profitti che ci sono stati, e ci sono ancora, sono andati a beneficio di troppo pochi. Mentre il Big business americano ha prosperato, negli Usa c’è stata una crescente polarizzazione dei livelli di reddito, una riduzione continua della quota dei salari e degli stipendi sul reddito, un azzeramento del risparmio delle famiglie accompagnato da un incremento esponenziale del loro indebitamento, una distribuzione ineguale della nuova ricchezza prodotta. Le multinazionali americane hanno preferito investire all’estero, sin dagli anni Ottanta, dove i costi sono più bassi, per aumentare i profitti e sottrarli comunque alla tassazione americana.

Non saranno le poche centinaia di miliardi di dollari di nuovi contratti firmati durante il viaggio in Asia, solo briciole, a riequilibrare i conti esteri americani e soprattutto ad eliminare le contraddizioni tutte interne agli Usa.

Voracità del capitalismo, finanziarizzazione dell’economia, e crescita dei salari interni da una parte; libertà dei commerci ed equilibrio dei rapporti con l’estero, dall’altra: questi sono i problemi sul tappeto.

Niente e nessuno può mettere sullo stesso piano personaggi politici incommensurabili per cultura, visione politica, pensiero strategico ed ampiezza delle prospettive storiche. Ma la Storia si ripete: come accadde per Mao, di dover combattere contemporaneamente contro i nemici interni e quelli esterni, anche per Trump è cominciata una Lunga Marcia.

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