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In Germania dilaga la moda dell’insider trading tra i top manager

Germania

La tentazione dei soldi facili sembra dilagare tra i piani alti delle imprese tedesche. A dimostrarlo è anche il numero crescente di indagini avviate per sospetto di insider trading. A lanciare l’allarme è stato questa settimana un lungo articolo dello Spiegel. C’è una classe dirigente (con mansioni amministrative o di sorveglianza) a quanto pare sempre più incline a tentare la fortuna, a fare proprio il motto o la va o la spacca, lamenta il settimanale di Amburgo.

A testimoniare che il fenomeno è in crescita sono i dati resi pubblici dal BaFin, l’organo di controllo della Borsa tedesca. Secondo gli stessi nei primi dieci mesi di quest’anno sono state avviate complessivamente già 60 indagini per sospetto insider trading, mentre nel 2016 erano state in tutto 42.

Tra i casi più eclatanti di quest’anno (ripreso anche dai media internazionali) c’è quello riguardante la Borsa di Francoforte e il suo amministratore delegato Carsten Kengeter. Questi nel frattempo si è anche dimesso, visto che rischia l’incriminazione. La storia che lo vede coinvolto risale al dicembre 2015, quando aveva acquistato un pacchetto di 60 mila azioni della Deutsche Börse AG (la Borsa tedesca) per un controvalore complessivo di 4,5 milioni di euro. Un acquisto che Kengeter ha sempre difeso spiegando che era previsto da un accordo di indennizzo per i vertici e che l’accordo sarebbe scaduto il 31 dicembre 2015. Dunque doveva comperare, anche perché sarebbe stato curioso se proprio il Ceo non acquistava titoli della Borsa che guidava. Gli inquirenti però non mettono in discussione l’accordo, ma il momento in cui Kengeter aveva deciso di comperare. Cioè a trattative già avviate con la City per la fusione della Borsa di Francoforte con quella di Londra. I vertici di Francoforte ribattono, che ciò non corrisponde al vero e insistono nel dire che, a quei tempi, le intenzioni di fusione (comunicate nella primavera del 2016) allora fusione era tutt’altro che assodate.

Anche la Hugo Boss è finita recentemente nel mirino degli inquirenti. Secondo quanto si legge sempre nell’articolo dello Spiegel, in questo caso si è trattato di un vendita al momento giusto. Un membro della famiglia Marzotto, presente nel consiglio di sorveglianza, avrebbe saputo anzitempo dell’imminente annuncio di una riduzione dei profitti. La vendita tempestiva gli avrebbe dunque risparmiato, diversamente che agli altri ignari azionisti, perdite consistenti.

Poi c’è il caso Volkswagen. In questo caso gli inquirenti vogliono capire se qualcuno dei vertici abbia avuto informazioni riservate riguardo allo scandalo diesel gate che si sarebbe riversato sulla casa automobilistica di Wolfsburg, da li a poco, inducendolo a vendere le azioni in suo possesso.

Infine c’è il caso riguardante il colosso della grande distribuzione Metro e il suo ceo Jürgen Steinmann. Il settimanale racconta che il giorno stesso in cui Steinmann prendeva in mano la guida del gruppo, cioè il 19 febbraio del 2016, acquistava anche un pacchetto di 43mila azioni per un valore complessivo di 1 milione di euro. Nulla di strano, si potrebbe argomentare, anzi, un investimento interpretare come attestato di fiducia riguardo al futuro del gruppo. A insospettire però i guardiani della BaFin è stato il fatto che sei settimane dopo veniva comunicata la divisione di Metro in due imprese: da una parte la grande distribuzione, dall’altra l’elettronica. Una divisione mirata a mettere la parola fine ai continui contrasti con il fondatore die Media Markt (la parte elettronica) Erich Kellerhals e a incentivare i profitti per gli azionisti. I quali infatti si mostrarono assai contenti nel vedere aumentare il valore dei titoli di 12 dodici punti percentuali, mentre Steinmann intascava 172.250 euro.

Sono dunque numerose le indagini in corso. Assai meno però le condanne emesse. Nel caso di Steinmann, così come negli altri, risulta a quanto pare difficile inchiodare i sospettati.

Vale per Metro, è valso per Wolfgang Reitzle, Ceo di Linde, il gruppo leader nel settore dei gas industriali. La BaFin lo sospettava di aver acquistato azioni Linde nel giugno 2016, quando già si trattava con il concorrente Usa Praxair in merito a una eventuale fusione. Prove inconfutabili di insider trading non se ne sono trovate, motivo per cui la procura di Monaco ha dovuto archiviare l’indagine. Ancora più curiosa a tal proposito la vicenda che vede sempre protagonista la Borsa di Francoforte. Gli inquirenti, pur convinti della colpevolezza di Kengeter, hanno proposto un patteggiamento: un ammenda di 10 milioni per la Borsa, una di 500 mila euro per il Ceo. In questo caso è però intervenuto il tribunale di Francoforte impedendo l’accordo. Non fosse altro perché l’ammenda nei confronti di Kengeter appariva decisamente bassa, avendo lui guadagnato dall’acquisto dei titoli 900 mila euro.

È vero, ammette lo Spiegel che questo genere di “affare” c’è sempre stato. Stupisce però, e probabilmente ancora di più nell’ottica del rigore tedesco, vedere proprio in Germania non solo una crescente propensione a ricorrere questi mezzi, ma anche il fatto che le imprese così come molti dei loro consulenti non sembrano avere, o fanno finta di non avere idea, di quando si addentrano nelle sabbie mobili dell’insider trading, insistendo invece sulla correttezza del loro agire.

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