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Friedman incensa MbS, ma il futuro re saudita sugli esteri ha già fatto diversi fiaschi

In questi giorni sta circolando moltissimo l’intervista che il premio Pulitzer del New York Times Thomas Friedman ha fatto al futuro re (in pratica già capo di stato operativo) saudita Mohammed bin Salman. Nell’intervista Friedman descrive il giovane rampollo di casa Saud come un innovatore che sta costruendo una “Primavera Araba saudita” a colpi di riforme. “I’m rooting for him” scrive il giornalista del Nyt senza nascondere che a lui bin Salman piaccia, e questo è piaciuto a Riad al punto che l’ufficio stampa degli Esteri ha inviato ai giornalisti una mail con un copia-incolla dell’intera intervista come fosse un comunicato uscito dal regno.

I più maliziosi ricordano che questo genere di innamoramento non è nuovo a Time’s Square: per esempio un ricercatore della Georgetown ha raccolto in un Twitter-thread una serie di articoli che vanno indietro fino al 1953 e che raccontano come periodicamente il giornale newyorkese abbia trattato i sovrani sauditi come “riformatori”. Bin Salman, o anche MbS come lo chiama la stampa internazionale, ha spinto un piano di modernizzazione del paese che passa sia dall’economia, con un progetto di diversificazione dal petrolio e una parziale privatizzazione dal gigante del settore Saudi Armaco, che dalla sfera sociale. Ha dichiarato di voler riportare il regno sulla traiettoria di un “Islam moderato”, ed è di per sé una grossa cosa, perché dall’Arabia Saudita per anni s’è diffuso il culto wahhabita – profumatamente sostenuto da Riad con investimenti in scuole coraniche e soft power di vario genere –, una visione molto radicale e inquadrata dell’Islam.

Però MbS è colui che ha concesso la guida alle donne: certe immagini spaccano lo schermo, e la comunicazione è un aspetto centrale per il nuovo sovrano. Comunicazione che sostituisce il solito compassato andamento delle attività del regno: bin Salman s’è fatto largo con la forza, però ha ottenuto un carico mediatico/propagandistico che su un’onda di una specie di populismo saudita gli ha portato a sé tutta la fascia anagrafica più giovane, mentre lui parlava di azioni contro la corruzione e ammodernamenti. MbS di fatto ha preso il controllo di tutte le stanze delle forze di sicurezza e ha fatto imprigionare molti dei suoi oppositori, sia tra i famigliari, sia tra i generali che tra i chierici più oltranzisti. Negli ultimi passaggio dell’intervista di Friedman si legge un ovvio-perché dietro a questi scacchi aggressivi: il giovane sovrano teme di essere prima o poi fatto fuori (e per questo o controlla tutto con persone fidate o lascia falle e debolezze nel sistema che si è creato attorno); il giornalista americano fa capire che succede questo a chi vuole innovare in un mondo in quel modo reazionario.

Da quando Mohammed bin Salman è assurto al ruolo di policy maker a Riad, il sonnolento regno saudita, tutto intrecciato in un delicato mantenimento di annosi status quo (economici, politici, religiosi) tra gruppi di potere interni e molto spesso collegati con la famiglia reale, ha subito diverse sollecitazioni molto sponsorizzate dai media. Questioni interne, come l’apertura alla guida alle donne, ma anche esterne, come la volontà di giocare un ruolo più assertivo negli affari del Medio Oriente. Soprattutto, farlo in aperto contrasto con l’Iran, nemico esistenziale da cui l’Arabia Saudita è spaccata da ragioni religiose (sciiti contro sunniti) e soprattutto – per MbS – geopolitiche. Un gioco che trova ottime sponde a Washington. Quelli ancora più maliziosi tra coloro che hanno letto l’intervista di Friedman, avranno notato che in quell’operazione media attorno al deus ex machina di Riad c’è anche un piacere fatto alla Casa Bianca, quella stessa Casa Bianca che per bocca del presidente Donald Trump non perde occasione di descrive il NYTimes come “failing” si ritrova un endorsement di assoluto livello – l’intervista ha fatto il giro degli esecutivi mondiali – a un alleato strategico a cui gli Stati Uniti, con interesse, stanno dando molto credito anche nelle operazioni estere anti-Teheran.

Questa sfera è quella attualmente più preoccupate per bin Salman: la guerra civile siriana ha segnato la vittoria evidente di Teheran, che ha appoggiato da subito il regime, sia a livello politico e diplomatico, che sul piano militare, inviando truppe a puntellare il debole esercito assadista. Quando si dice “truppe” si intende quel mix ibrido di uomini dei corpi dell’esercito regolare e quelli delle milizia settarie sciite che l’Iran controlla come linea di politica estera in Medio Oriente: questi partiti/milizia ora si sono attestati al potere sia a Damasco che a Baghdad, i principali centri politici della regione, e sono il vettore con cui l’Iran cerca di controllare la regione. E al potere già lo sono in Libano, dove il gruppo Hezbollah ha espresso un presidente alleato e fa parte della coalizione di governo. Ecco, proprio dal Libano può partire un ragionamento che ruota intorno a una domanda: l’Arabia Saudita che strategia ha? (Ammesso che ce ne abbia una chiara). Secondo le ricostruzione e le analisi dei principali osservatori delle dinamiche mediorientali, è stata Riad a spingere il premier libanese alle dimissioni, per marcare un altro punto di contrasto (ed evidente denuncia) all’influenza giocata dall’Iran. Però, quelle stesse analisi confermano che la mossa non ha affatto indebolito Hezbollah, accusata dal dimissionario di preservare soltanto gli interessi degli ayatollah: anzi, con una reazione moderata (per quanto questo possa significare, visto che ci si riferisce agli atti di un gruppo che Europa e Stati Uniti inquadrano, a ragione, tra le entità terroristiche) il Partito di Dio ha guadagnato terreno piuttosto che finire sotto lo scacco saudita; in Libano, paese segnato da divisioni settarie, tutti concordano su un fatto: le dimissioni di Saad Hariri sono state un’ingerenza eccessiva di Riad.

La mossa saudita libanese s’è chiusa in un fiasco. Non ha ricevuto adeguata copertura, addirittura c’è stato l’ingresso in campo per de-escalare la crisi del presidente francese, e alla fine il primo ministro è tornato a Beirut per accettare il consiglio di Hezbollah – un po’ un “mettiamoci una pietra sopra” – e congelare le dimissioni. Ora governa, ma ovviamente più debole di prima dopo la ramata da e di Riad. In termini pratici segue un altro grande scivolone saudita: l’isolamento del Qatar, posto all’angolo diplomatico da Riad e dagli stati satelliti del Golfo perché – ufficiosamente – troppo morbido con l’Iran. Anche in questo caso, la mossa saudita è stata appoggiata da qualche uscita fuori luogo del presidente americano, ma non è stata seguita a livello internazionale con l’adeguata copertura che Riad avrebbe richiesto. Risultato: il Qatar è lì, con tutti i suoi interessi piazzati bene in giro per il mondo, nonostante i sauditi abbiano provato a usargli contro la scusa che l’emirato finanzia il terrorismo e dunque sarebbe meglio per chiunque tagliare ogni genere di rapporto con Doha. E ancora prima ce n’è stato un altro di fiaschi: l’intervento militare in Yemen, che gli osservatori da anni definiscono il “Vietnam saudita“. In Yemen MbS cercò di costruire la prima esperienza operativa della sua Nato-Araba – fu una delle sue prime importanti mosse politiche – ma a conti fatti, a due anni dall’intervento, soltanto a Riad pensano di essere sulla strada definitiva per sconfiggere i ribelli Houthi che hanno scalzato il governo filo-saudita di Sanaa. Ci sarà ancora da combattere, e soprattutto l’intervento è un guaio umanitario: fioccano le denunce per i metodi brutali di Riad, le vittime civili, l’impreparazione. Un’altra missione delicata affrontata di fretta, che è diventata un simbolo di una politica estera arrembante quanto traballante. Di questo MbS ha preferito non parlare con Friedman.

 

 

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