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Nuovi approcci di modifica del genoma per la cura di malattie genetiche

Alcuni giorni fa i giornali hanno riportato la notizia diffusa dalla Associated Press che per la prima volta dei ricercatori americani hanno iniettato nel sangue di una persona strumenti molecolari per la modifica del genoma. L’obiettivo è di curare una grave malattia ereditaria: la sindrome di Hunter.
La notizia è stata commentata in modo approfondito da Jocelyn Kaiser sulla rivista Science. Qui di seguito riporto un estratto di questo commento.
La sindrome di Hunter è dovuta ad una mutazione nel gene che codifica l’enzima che digerisce i mucopolisaccaridi, componenti essenziali del tessuto connettivo. La carenza di questo enzima determina l’accumulo di mucopolisaccaridi con conseguente danno a vari organi e tessuti quali tra cui le vie respiratorie, il cuore, il fegato, la milza, le ossa e le articolazioni, il volto, il collo e il cervello. I primi sintomi della malattia si manifestano tra i 2-4 anni. A seconda della mutazione si hanno forme di gravità differente. L’aspettativa di vita varia da 20 a 60 anni. I pazienti presentano ritardo mentale, disturbi dell’umore e del carattere che comportano un eccesso di aggressività. Il gene che codifica l’enzima è presente sul cromosoma X e questo spiega perché la malattia colpisca prevalentemente gli uomini che, al contrario delle donne, hanno una sola copia di questo cromosoma.
La terapia attuale dei pazienti con sindrome di Hunter prevede infusioni settimanali dell’enzima mancante. Tuttavia i livelli ematici della proteina scendono già nel primo giorno e sono per questo poco efficaci. La speranza è che la modificazione del genoma – che prevede una singola infusione endovenosa di 3 ore– renda alcune cellule del fegato in grado di produrre in modo permanente l’enzima. In questo senso il fegato diventerebbe una sorta di fabbrica per la produzione della proteina, evitando trattamenti continui e poco efficaci. Anche questa però non sarà una strategia in grado di risolvere completamente la malattia. Infatti, come la proteina che viene somministrata settimanalmente, anche quella espressa dalle cellule del fegato non sarà in grado di attraversare la barriera emato-encefalica, la membrana che protegge il cervello dai patogeni. E’ logico attendersi, perciò, che anche questa strategia non riuscirà a bloccare il danno cerebrale.
La sperimentazione. Il comunicato stampa si riferisce al trattamento del primo paziente coinvolto in questo piccolo studio clinico. Sebbene il paziente di 44 anni abbia una forma lieve della malattia, nella sua vita ha già subito molte operazioni. Lo studio, finanziato da una azienda biotech californiana – la Sangamo Therapeutics, si propone di inserire una copia corretta del gene nel genoma delle cellule epatiche vicino al promotore del gene per l’albumina. In questo modo sarà possibile esprime la proteina ad elevati livelli. L’idea è che anche modificando una piccola frazione delle cellule del fegato si riesca ad ottenere una quantità di proteina sufficiente per la terapia.
L’approccio utilizzato dovrebbe evitare i problemi associati alla terapia genica tradizionale, dove il DNA viene inserito in modo casuale e non mirato nel genoma delle cellule con il rischio di inattivare o alterare l’espressione di geni connessi all’insorgenza di altre malattie come i tumori.
La tecnica che viene utilizzata è precedente a quella ormai famosa di CRISPR-cas9. Si basa su delle specie di forbici molecolari chiamate nucleasi a dita di zinco (ZFN) in grado di tagliare il DNA in corrispondenza di sequenze specifiche. Non è la prima volta che le ZFN vengono impiegate per modificare il genoma a scopi terapeutici. Anni fa la stessa ditta le aveva utilizzate per rendere le cellule del sangue resistenti al virus dell’HIV e poi reintrodurle nel paziente. Questa è però la prima volta che le ZFN vengono utilizzate direttamente per modificare il DNA nei pazienti. Per raggiungere questo ambizioso obiettivo i ricercatori impiegano un vettore virale che veicola nelle cellule del fegato il DNA che codifica le ZFN e il gene di interesse. Il sistema utilizzato è quello del virus adeno-associato, ampiamente impiegato nella terapia genica e considerato sicuro, anche se in alcuni pazienti può scatenare una risposta immunitaria potenzialmente pericolosa.
Considerazioni etiche. Nonostante il sistema delle ZFN sia altamente specifico, non si può escludere che si verifichino integrazioni in siti non desiderati del genoma ad esempio in prossimità di geni correlati all’insorgenza di tumori. Inoltre le cellule potrebbero continuare ad esprimere le nucleasi ZFN per anni indicendo rotture sul DNA con conseguenze non prevedibili. Il comitato etico che ha approvato la sperimentazione, e che ha tra i suoi membri scienziati esperti nel campo, sì è dimostrato convinto dai dati sulla sicurezza forniti dalla ditta e ottenuti sia in sistemi cellulari che in modelli animali. Inoltre, la sperimentazione prevede di valutare la possibilità di integrazioni indesiderate su biopsie epatiche. Alcuni scienziati tuttavia sollevano dei dubbi, anche perché basta che l’evento indesiderato si verifichi in una singola cellula per avere l’insorgenza di un tumore anche a distanza di anni.
Prospettive. Ovviamente la metodica potrebbe venir utilizzata anche per il trattamento di altre malattie. Infatti la Sangamo sta già pensando di applicare lo stesso approccio della “fabbrica epatica” per il trattamento dell’emofilia.

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