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Chi parla di un Russiagate per il referendum sulla Brexit

Da qualche giorno alcuni quotidiani nel Regno Unito hanno dato vita a una feroce polemica accusando la Russia di aver interferito nel referendum per la Brexit del giugno 2016, favorendo con una campagna social, inutile dirlo, il fronte del Leave. Non che le accuse siano nuove: già nel dicembre 2016 Ben Bradshaw, esponente di spicco dei Labour, definiva davanti al parlamento “altamente probabile” un’intromissione del Cremlino nel voto britannico, pur senza allegare alcuna prova. Giovedì Bradshaw è tornato a martellare sul tema supportando apertamente alla Camera un rapporto di OpenDemocracy, che solleva dubbi sulla regolarità dei finanziamenti plurimilionari allo Ukip di Arron Banks, fondatore della campagna LeaveEU.com.

Con un articolo sul Guardian di fine ottobre l’editorialista Nick Cohen ha riacceso i riflettori sulla questione, arrivando a puntare il dito contro Mosca per aver influenzato il referendum, specialmente attraverso “la tattica di usare le crisi migratorie per innescare la paura dei nativi”. Immediata la reazione di Sputnik International, testata online notoriamente collegata al Cremlino, che ha denunciato l’”ultima teoria cospirativa dell’establishment”.

Lasciate da parte le baruffe mediatiche, sembrerebbe che ci siano prove più solide di un intervento russo nella campagna per la Brexit. Il parlamento britannico ha infatti dato il via a un’indagine sulle fake news guidata dal conservatore Damian Collins. Nel mirino ci sarebbero centinaia di accounts Twitter e (in misura minore) Facebook che avrebbero giocato un ruolo non indifferente nella campagna per il Leave diffondendo notizie false. Di questi, 29 utenti Twitter, per un totale di 268 643 followers, già riconosciuti come affiliati al governo di Mosca durante le indagini per il Russiagate, sono stati particolarmente attivi nella propaganda anti-Remainers, cavalcando temi come l’immigrazione, il radicalismo islamico, e attaccando più volte il sindaco di Londra Sadiq Kahn e l’ex premier David Cameron.

A un primo sguardo al numero totale di followers, le effettive capacità di questi accounts di influenzare le elezioni britanniche appaiono modeste. Non deve però sorprendere la serietà con cui si affronta il tema in Inghilterra in questi giorni, dato che le indagini del Congresso americano sulle interferenze russe nelle elezioni presidenziali avevano già inserito alcuni di questi utenti nella lista nera degli account collegati alla Internet Research Agency (IRA). Trattasi di un’agenzia con base a San Pietroburgo, stranota agli esperti internazionali di fake news, che lavora h24 per diffondere notizie deliberatamente manipolate a scopi politici. Damian Collins ha inviato una lettera al Ceo di Twitter Jack Dorsey chiedendo delucidazioni sull’attività dell’IRA sul social network, e sollecitando un’indagine interna per rilevare eventuali intromissioni nella campagna referendaria.

Non si è fatta attendere la risposta delle autorità russe alle accuse del parlamento britannico. L’ambasciata del Cremlino a Londra ha risposto di giorno in giorno agli editoriali sul tema, limitandosi a bollare gli inquisitori come cospirazionisti e a congedarli sul suo profilo twitter con citazioni shakesperiane come “Molto rumore per nulla”. Sul fronte opposto, la costituzione del comitato di inchiesta sulle fake news guidato da Collins ha ringalluzzito i nemici giurati di Nigel Farage e dei Leavers, pronti ora a cavalcare l’ondata di sospetti per mettere in discussione l’esito del referendum. A cominciare da Guy Verhofstadt, l’ex primo ministro belga e negoziatore per la Brexit dell’Europarlamento, che ha subito twittato: “Gli agenti di Putin hanno influenzato le elezioni americane. Adesso dobbiamo scoprire se hanno fatto lo stesso con la Brexit”. Una reazione scomposta, giudica il Financial Times. Che, pur riconoscendo la gravità di un’eventuale intromissione russa nella vita democratica del Regno Unito, invita alla prudenza. D’altronde, scrive il quotidiano, ad oggi gli investigatori hanno in mano solo qualche migliaio di tweets, “decisamente troppo pochi per influenzare in qualsiasi modo l’opinione pubblica”.

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