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Web tax, il Pd dice sì ma anche no

Sergio Boccadutri

Non c’è pace per la web tax all’italiana. Ed è proprio nel Partito Democratico, che ha avanzato la proposta accolta dal governo nell’emendamento alla legge di bilancio che sarà licenziata questa settimana dal Senato, dove c’è maretta, soprattutto sulla natura stessa della tassa ai colossi del web come Google, Facebook e Amazon.

Una discussione interna quasi antropologica che riporta indietro le lancette della storia a qualche anno fa, al dicembre del 2013, quando Enrico Letta premier voleva introdurre la misura e l’allora segretario del Pd, Matteo Renzi disse esplicitamente che non era un’iniziativa da prendere a livello italiano ma da condividere sul piano europeo.

CON QUESTA WEB TAX PASTICCIATA, ARRIVERÀ PROCEDURA D’INFRAZIONE

Oggi a criticare l’emendamento che introduce una web tax del 6% erga omnes ovvero per tutte le aziende che operano sul web (ma che si trasforma in un credito d’imposta – come raccontato da Formiche.net – per le aziende che hanno bilanci italiani in regola oltre ad una sede sul nostro territorio) è il deputato del Pd, Sergio Boccadutri (in foto), che già in passato, durante il voto in Commissione Bilancio si era astenuto sulle misure volute dal suo collega di partito Francesco Boccia per cercare di ottenere qualche risorsa in più dai giganti mondiali del web e della tecnologia.

Con diversi tweet ha fatto sapere al senatore Massimo Mucchetti, presidente della Commissione Industria del Senato e promotore dell’emendamento che introduce la webtax all’italiana che non ci siamo proprio: “Il testo di Mucchetti è un pasticcio senza eguali. Non scalfisce gli Over The Top mentre aumenta costi per clienti finali (e forse anche quelli di chi non usa servizi digitali)”. E ancora: “Mucchetti non sa come funzionano Sepa, Iban e sistemi di pagamento in generale. Probabilmente persone che usano il pc solo come macchina da scrivere”.

Boccadutri non è stato il solo a criticare la web tax. Anche il deputato del Pd Giampaolo Galli, già direttore dell’Ufficio Studi di Confindustria, in un post su Facebook ha stimmatizzato l’impalcatura su cui si regge la misura, biasimando il credito d’imposta che sarebbe un discrimine tra aziende nostrane e quelle straniere. “Solo le imprese italiane o con stabile organizzazione in Italia potranno utilizzarlo – scrive – Questa è una discriminazione a danno delle imprese estere, incluse quelle comunitarie (che non è detto siano tutte in Irlanda o in Lussemburgo). In pratica, è un classico dazio doganale. Credo che mai sia stato inferto un colpo tanto pesante ai principi di base su cui si fonda il mercato unico europeo. Il che rende pressoché certa l’apertura di una procedura di infrazione contro l’Italia”.

PERCHÉ SPOSTARLA AL 2019? SOLO UN FAVORE ALLE BIG COMPANY

Altro tema caldo poi è lo spostamento al 2019 della web tax e non a luglio del prossimo anno come inizialmente ipotizzato. Lo spostamento in avanti dell’entrata in vigore, secondo lo stesso Mucchetti, consentirà al governo di ampliare la platea dei soggetti obbligati al pagamento 6% sulle prestazioni di servizi e di conseguenza assicurare alle casse dell’erario un gettito più consistente. La nuova base imponibile comprenderà infatti tutti i tipi di attività non solo business to business ma anche il business to consumer. Spetterà al ministero dell’Economia definire con un apposito decreto da varare entro il 30 aprile 2018 i “confini” tra prestazioni di servizi e cessioni di beni cui applicare l’imposta. Ma questo rinvio temporale non è piaciuto ad un altro padre nobile della web tax, Francesco Boccia che ha promesso “dei miglioramenti e ulteriori correzioni” appena il testo arriverà alla Camera. Boccia in particolare teme il rischio di vedere applicata la cedolare del 6% anche ai prodotti targati made in Italy venduti all’estero, in questo modo si andrebbe a snaturare una tassa pensata esclusivamente per i giganti del web e non per far pagare le tasse e a chi già le paga in Italia.

UE INSISTE SERVE APPROCCIO EUROPEO E NON DEL SINGOLO STATO

Mentre il Pd discute intanto una doccia fredda arriva dalla Commissione Europea, in particolare da Margrethe Vestager, commissario europeo alla concorrenza che ha in mano il dossier durante una conferenza all’Università Bocconi di Milano. “Le considerazioni portate dall’Italia in tema di webtax sono molto importanti – ha detto – ma è comunque auspicabile che si riesca a trovare un approccio a livello europeo o, meglio ancora, internazionale per quanto riguarda le imposte da applicare alle società digitali”. “Se non si troverà un accordo internazionale avanzeremo una proposta europea. Un’idea sarebbe quella di considerare il fatturato – ha proseguito – ma bisogna stare bene attenti a definire le quote e poi c’è anche il problema che alcune aziende generano valore senza grandi ricavi”. Che poi altro non è che il pensiero che esprime da diverso tempo proprio un italiano, Roberto Viola Direttore Generale della Direzione Communications Networks, Content and Technology dell’Unione Europea. “Una questione come la ‘tassa sul web’ non può essere affrontata dai paesi dell’Ue separatamente, poiché si rischia la distruzione del mercato unico digitale”. Un messaggio neanche tanto velato al Pd e ai promotori della web tax all’italiana.

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