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Vi racconto come sono cambiati sindacati e sindacalisti

Chiunque abbia incontrato il sindacato confederale nell’epoca del suo massimo potere, vale a dire nella prima metà degli anni Settanta del secolo scorso, sicuramente ha conosciuto un ambiente umano davvero speciale. Non mi riferisco soltanto ai suoi capi o alle straordinarie lotte di massa di quel periodo. Penso anche a quei dirigenti di seconda fila, a quei delegati o semplici attivisti che, ciascuno con la propria piccola storia fatta di rinunce e di generosità, hanno contribuito a costruire una formidabile esperienza di civilizzazione del lavoro. Ecco, allora, uno dei pregi più rilevanti di questo libro. Nella galleria di personaggi dai mille volti che ci propone, l’autore, che ha incontrato il sindacato proprio nella stagione in cui ha prepotentemente rialzato la testa, non si è dimenticato di questi “santi minori”, per usare una felice definizione coniata da Bruno Manghi in un fortunato volumetto (Interno sindacale, 1996). Per loro si poteva davvero utilizzare quella parola “servizio” che successivamente non di rado ha assunto un significato falso e ipocrita. Una risorsa che certamente non basta a spiegare l’ascesa delle confederazioni verso ruoli impensabili nell’immediato dopoguerra. Ma forse spiega la loro tenuta organizzativa anche quando si sono manifestati i primi segni di un graduale declino, quanto meno rispetto ai livelli di prestigio e di consenso raggiunti nell’era della “centralità operaia”.

La nostalgia per questa realtà forte che fu sarebbe del tutto comprensibile, ma Cazzola sa perfettamente che non aiuterebbe molto. La verità è che è finito il ciclo dei santi minori, come si è estinta la razza di quei leader carismatici che sono stati protagonisti delle svolte strategiche e delle culture storiche del movimento sindacale: cristiana, comunista, socialista e altre ancora. Perciò ricercare oggi la consistenza etica e ideale del suo “mestiere” ricorrendo a quegli esempi, descritti in asciutte e precise schede biografiche, è un esercizio deviante. Anzi, può prestarsi al gioco retorico di chi celebra gli eroi nei giorni di festa per insegnare la furbizia e il cinismo nei giorni feriali. Ecco, Giuliano a questo gioco non ci sta. Al contrario, celebra gli eroi – più o meno noti al grande pubblico – nei giorni feriali per educare alla schiettezza delle idee anche nei giorni di festa, quelli in cui il sindacato magnifica i fasti e la nobiltà dei suoi compiti (come nei riti congressuali).

Sulla scia delle lezioni Federico Mancini e Gino Giugni, suoi indimenticati maestri, Cazzola torna inoltre sulla vexata quaestio della mancata applicazione dell’articolo 39 voluto dai padri costituenti. Questione che rispecchia lo stato di anomia in cui versano tuttora le regole che dovrebbero garantire una ragionevole soglia di rappresentatività negli accordi collettivi, pur in situazioni di pluralismo e di contrasti sindacali. Questione su cui sono stati versati fiumi d’inchiostro, e qui con mirabile precisione sono ricostruite le ragioni dell’attuale impasse. Mi limito a sottolineare che Cazzola evita il rischio che di questi tempi corre la letteratura sui sindacati: quello di dare ai sindacalisti “buoni consigli”, sempre con le migliori intenzioni e spesso premurosi, ma talvolta un po’ saccenti fino a trasformarsi in predicozzi tipo “tutto cambia e voi no”.

Il suo è un approccio teorico basato sulla solida conoscenza pratica dei cambiamenti strutturali dei processi produttivi e del mercato del lavoro, che richiedono di difendere i salariati con nuove leggi e con nuovi contratti. Questa resta la giusta risposta alle paure suscitate dalle novità: paura della fabbrica perchè abbrutiva l’operaio; paura della macchina perché alienava il lavoratore; paura del mercato perché “corrode il suo carattere”, come sostiene Richard Sennett; paura del robot, perché distrugge posti di lavoro. Una paura, quest’ultima, che contraddice una verità elementare,pervicacemente contestata da tutti i neoluddisti del terzo millennio: ogni rivoluzione tecnologica comporta infatti la nascita di lavori nuovi e, parallelamente, la trasformazione di vecchi lavori, determinandone spesso la marginalità o la scomparsa. Ce ne offre un lucido ritratto  -celebrato da Marx – il romanzo I due poeti, con cui Balzac apre il ciclo delle Illusioni perdute (1837-1843): “All’epoca in cui comincia questa storia -scrive- la macchina di Stanhope e i rulli inchiostratori non erano ancora entrati nelle piccole stamperie di provincia”. Nella tipografia descritta nelle prime pagine del romanzo sopravvivono perciò “Orsi” e “Scimmie”, cioè i torcolieri che si muovono tra le tavolette su cui è disteso l’inchiostro e il torchio, e i compositori, che fanno una “ininterrotta ginnastica […] per prendere i caratteri nei centocinquantadue cassettini in cui sono contenuti”. Tutte figure professionali e mansioni destinate a scomparire, poiché le loro funzioni sarebbero state svolte da macchine: il torchio a vapore, la rotativa, la linotype.

Ovviamente, non è qui possibile stilare un elenco dei nuovi mestieri legati alla rivoluzione informatica in corso. Mi limito a citare un esempio emblematico: il Mechanical Turk di Amazon, che fa riferimento al celebre fantoccio meccanico creato da Wolfgang von Kempelen per Maria Teresa d’Austria (1769); un finto automa in grado di giocare a scacchi, all’interno del quale si celava un campione dal fisico minuscolo che ne manovrava le mosse. Si tratta di una piattaforma di crowdworking (da crowd, folla, e working, lavoro), in grado di connettere chi offre lavoro con un esercito di consulenti, disponibile giorno e notte, sette giorni su sette. Non è difficile cogliere in questo portale la persistenza di un taylorismo sui generis: ogni ordine inviato on-line mobilita i dipendenti impiegati nei magazzini (per un salario medio di due dollari l’ora) in percorsi lunghi chilometri, con assegnazione di compiti parcellizzati, gestiti e monitorati grazie alla Rete e a modelli di businnes che poggiano su una dura e gerarchica divisione del lavoro. A tal proposito, sulla Wikinomics, “la collaborazione di massa che sta cambiando il mondo”, mi sia consentito di suggerire la lettura di un documentatissimo saggio di Luca Mori, Rivoluzione informatica e lavoro tra XX e XXI secolo, nel volume collettaneo Il lavoro dopo il Novecento: da produttori ad attori sociali (Firenze University Press, 2016).

Ebbene, c’è qualche sindacato che si sogna di affiliare questi lavoratori e immagina come proteggerli? Non pare. Ecco perché il sindacato non può procrastinare la ricerca di una tutela e di una rappresentanza postnovecentesca. In questo senso, la regolazione dei lavori (il plurale è d’obbligo) deve cominciare dal mercato, ossia prima che il lavoratore trovi un impiego: infatti i sindacati sorsero per difendere gli iscritti che volevano trovarsi e mantenere un impiego. Adesso si attivano soltanto quando il lavoratore si è già trovato il posto, o sta per perderlo o lo ha perduto, cosicché in paesi come l’Italia sono più forti tra i pensionati che tra gli attivi.

Qualcuno obietterà, e continua a obiettare contro la filosofia di provvedimenti come il Jobs Act: come, i sindacati devono tornare a tutelare i lavoratori sul mercato del lavoro prima che nel rapporto di lavoro? Come nell’Ottocento? Questo ritorno al passato può sembrare paradossale, ma è logico. Perché il secolo della diversificazione somiglia di più a quello dell’eterogeneità, quando il lavoratore veniva tutelato nel complicato passaggio sul mercato del lavoro, dove era più indifeso e insicuro. Gli scenari futuri della rivoluzione digitale in corso restano problematici, sia chiaro. Il campo della cosiddetta economia della conoscenza può essere occupato sia da zone grigie tra lavoro autonomo e asservimento, sia da condizioni che valorizzano la responsabilità, l’intelligenza, la creatività, la partecipazione della persona che lavora. La seconda prospettiva richiede progetti e azioni credibili, lontane dall’estetismo spontaneista della cultura del conflitto. Richiede, inoltre, che le organizzazioni dei lavoratori e le stesse forze riformiste non restino frastornate, divise e incerte di fronte a novità che sembrano minacciarle, ma che non basta esorcizzare o maledire. Vedere la storia come un susseguirsi di fregature e di tradimenti, per cui il mondo migliore è sempre quello che non c’è, significa consegnarsi all’irrilevanza politica nel mondo che c’è.

Spero di avere così riassunto in modo corretto il pensiero di Giuliano, che condivido senza se e senza ma, pur non sapendo usare come lui quell’arte della memoria e quella perizia dello studioso di rango che rendono avvincenti le testimonianze e le riflessioni raccolte in questo ebook. Per chi sospettasse a questo punto il reato di piaggeria, dopo che avrà letto le sue pagine sono sicuro che lo ritirerà.

L’E-BOOK PUO’ ESSERE LETTO E SCARICATO IN VIA INTEGRALE A QUESTO LINK

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