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I conti dell’Italia con il fascismo (e con l’antifascismo)

Lingotto, 5 stelle, molestie

Nella curvatura vintage che sta assumendo, negli ultimi tempi, la politica italiana non poteva mancare il revival dell’antifascismo. Con tutta la sua retorica emergenziale ma anche con la forza aggregativa e unificante che sembra avere nel frammentato e diviso universo della sinistra. Ritornano tutti i miti e i riti (le marce, gli slogan, la lettura dal palco dei passi più toccanti dei padri della Resistenza..) di una stagione che, indipendentemente dal giudizio che se ne dà, non è più la nostra e che andrebbe consegnata definitivamente al lavoro degli storici.

Certo, nuove forme di intolleranza e persino nuovi regimi illiberali possono sempre nascere, ma essi, sicuramente, con il fascismo storico avranno poco o punto da spartire. Né l’antifascismo militante e identitario, con i suoi limiti storici e concettuali evidenti, potrà essere la medicina adatta per combatterli. Quel che poi a me sembra evidente è che, se l’antifascismo unisce e dà identità alla sinistra, alle sue diverse anime, non gli dà voti o consenso: è un’unità simbolica e effimera proprio perché nostalgica, una unità destinata a sfaldarsi al primo impatto con i problemi concreti della realtà a cui la sinistra rischia di continuare a non saper dare una risposta.

Ciò che però colpisce, in tutta questa vicenda, è l’asimmetria che si crea fra la consapevolezza che sempre più gli storici hanno del fascismo e dell’antifascismo e il giudizio, irriflesso e “mitologico”, che di esso si vuol far passare. Sia chiaro: non si tratta di trovare il “buono” che era anche nel fascismo, se non altro perché il giudizio storico non deve dare patenti di moralità o immoralità. Si tratta, piuttosto, di tener ben presenti quei nessi che rendono la dialettica fra fascismo e antifascismo molto più problematica e meno semplice di quanto si era voluto credere un tempo. Non solo il fascismo va considerato, come ci invitava a fare ieri Giuseppe Bedeschi dalle pagine de Il Foglio a partire dalla sua genesi, cioè prima di tutto come “reazione” della classe media al “biennio rosso” e alla possibilità di uno sfaldamento di quella Patria per la quale con enormi sacrifici si era appena combattuto (e che giustificò il giudizio benevolo che su di esso dettero tanti liberali divenuti antifascisti solo in seguito all’abolizione delle garanzie dello Statuto). Non solo va messo sempre in adeguata luce il carattere non monolitico che esso ebbe al proprio interno fra anime diverse per ideologia e obiettivi, e che nel Duce trovavano solamente una unità simbolica, tanto che il fascismo solo molto tardi cominciò ad assumere, come ci ha insegnato Renzo De Felice, marcati tratti totalitari. Non solo, ancora, bisogna tenere sempre in conto la dialettica che, all’interno dello Stato, si svolgeva fra fascisti, monarchia e Chiesa Cattolica, e che contribuiva d’altra parte anch’essa a rendere mono monolitico l’edificio istituzionale.

Si tratta, più radicalmente, di comprendere come, al contrario di quanto avvenuto in Germania col nazionalsocialismo, l’Italia “liberata”non abbia mai fatto seriamente i conti con quei suoi venti anni di storia. E che di ciò oggi ci sarebbe veramente bisogno, e non solo al livello degli storici. A questa mancata resa dei conti contribuiva sicuramente la presenza di un forte Partito comunista fra le forze antifasciste e, quindi, contribuivano le pretese che esso da subito addusse nella rifondazione dello Stato. L’antifascismo diventò così l’ideologia di riferimento dell’Italia repubblicana, e ne ispirò la Costituzione. Ma fu come una ideologia monca dal punto di vista liberale, destinata a mai compiersi in una più matura e occidentale ideologia antitotalitaria. Ma ciò con cui soprattutto non si volle fare i conti fu il consenso di massa che al fascismo, in certi suoi momenti, aveva arriso. Ciò avrebbe imposto un esame di coscienza e la maturazione di un senso di colpa collettivo che mai ci fu. Soprattutto, avrebbe dato più concretezza a quel “mantra” del “fascismo che non è morto” che ha accompagnato gli anni della Repubblica.

E’ vero, il fascismo è sopravvissuto a se stesso: nelle istituzioni, nell’organizzazione dello Stato e dei partiti, in certi stilemi di azione e di pensiero. Ma esso riviveva non in qualche anfratto della società, ma in ampi strati di quella classe dirigente repubblicana che era divenuta rapidamente antifascista da fascista che era, servendosi del lavacro dato dalle nuove forze dominanti e, direttamente o indirettamente, dal Pci in primo luogo. Chi più gridava all’antifascismo, più aveva qualcosa da farsi perdonare. E il grido contribuiva a rimuovere e a rendere tabù una parte non indifferente di se stessi. Il fascista faceva paura perché inconsciamente lo si vedeva in se stessi, quasi allo specchio.

Avviare tutti verso questa più matura consapevolezza, renderebbe forse non pochi servigi non solo alla verità storica e all’onestà intellettuale ma anche a quella democrazia e a quella libertà che tanto, si dice, stanno a cuore.

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