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Le grandi infrastrutture e la funzione strategica dei valichi alpini

Il 14 dicembre, è stato presentato, nei locali dell’Ordine degli Ingegneri della Provincia di Roma, il volume Le Grandi Infrastrutture e la Funzione Strategica dei Valichi Alpini di Alessandro Focaracci (Marsilio Editore). Un ambiente tecnico, per un libro però che ha un forte contenuto di strategia politica. Specialmente nella fase di approntamento dei programmi per la prossima  legislatura. In quella che sta per terminare, la spesa pubblica per le infrastrutture in termini di Pil ha raggiunto il suo minimo storico, con implicazioni che si toccano con mano. Focaracci è presidente da FASTGI, una fondazione senza fini di lucro per lo studio delle grandi opere.

Il volume traccia, in primo luogo, un quadro storico economico dello sviluppo delle infrastrutture sottolineando la lungimiranza del governo di Camille Benso Conte di Cavour che in un’Italia ancora sulla via dell’unificazione fece progettare il traforo del Moncenisio in quanto una condizione per la sopravvivenza del Paese, negli anni in cui veniva aperto il canale di Suez, era assumere un ruolo da protagonista nella via verso le Indie ed il Mar della Cina. Il libro esamina, poi, gli aspetti economico-sociali (fornendo una utilissima rassegna di ‘casi’ italiani, riassumendone le analisi economiche anche di quelli rimasti sulla carta (o quasi). Dopo un’analisi di fonti di finanziamento e strumenti, tratta del ruolo della politica (che da anni sottovaluta l’importanza delle infrastrutture nel Paese).

Il volume aggiorna una letteratura in materia già abbondante: tutti gli scritti propongono un aumento dell’intervento pubblico, una semplificazione delle procedure, una regolazione più efficace e più efficiente. L’Italia fa parte del Long Term Investment Club che organizza ogni anno a Roma una conferenza mondiale sul tema. Non sembra, però, che ci siano stati effetti concreti sui processi decisionali della politica.

Negli anni Cinquanta sono state realizzate numerose grandi opere (tecnicamente all’avanguardia) perché c’era una volontà politica che si fondava su un ampio consenso (governo, Parlamento, imprese e cittadini). Allo stesso modo per l’opinione pubblica la costruzione di una nuova opera era, per definizione, un’opportunità. Oggi tale percezione non è scontata. Soprattutto, allora c’era l’esigenza di costruire l’infrastruttura primaria per lo sviluppo del Paese.

A partire dalla fine degli anni Novanta, invece, il fabbisogno principale è stato per il completamento e l’ammodernamento del parco infrastrutture esistente, una tematica molto più complessa sotto il profilo tecnico, molto più difficile da valutare sotto quello economico e finanziario e molto meno attraente ai fini della costruzione e gestione del consenso. Inoltre, il completamento e l’ammodernamento del parco infrastrutturale hanno dovuto misurarsi con le nuove esigenze in campo ambientale e le pertinenti normative. Ciò ha cambiato il già complesso del ciclo di progetto, le sue regole di governance e il modello normativo di riferimento.

Circa trenta anni fa, l’allora direttore del Congressional Budget Office degli Stati Uniti, Alice Rivkin, aveva sottolineato che in un’economia avanzata e matura le spese per infrastrutture fisiche differiscono in misura significativa da quelle che caratterizzano Paesi o regioni in via di sviluppo: nei Paesi maturi riguardano non tanto la creazione di nuove infrastrutture fisiche, quanto l’ammodernamento e la manutenzione straordinaria di quelle esistenti. Ciò comporta non pochi problemi sia sotto il problema dell’analisi economica che sotto quello politico-amministrativo.

A mio avviso è sul secondo aspetto che poco ci si sofferma e che è al cuore del declino del parco infrastrutturale italiano. I ritardi nel miglioramento delle infrastrutture (anche quando i finanziamenti sono disponibili, come nel caso del tratto ferroviario Andria-Corato) sono in gran misura dovuti a una normativa complessa (difficile comprendere perché per le ferrovie in concessione non siano obbligatori sistemi di controllo tecnologicamente moderni in uso sul resto della rete nazionale), ma soprattutto aggrovigliata, parcellizzata e dove lo Stato non esercita quella funzione di supremazia (nel risolvere dispute locali) che ha sempre avuto sin dai tempi dello Statuto Albertino e che ha mantenuto anche nell’infelice riforma del titolo V della Costituzione effettuata nel 2001.

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