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I droni militari in Europa e la leadership italiana

Articolo pubblicato sulla rivista Airpress

Erano 28 i droni impiegati nell’operazione Allied Force, quella in cui i Balcani, nel 1999, furono bombardati ininterrottamente dalla Nato per 78 giorni. I mezzi più progrediti erano i Predator A statunitensi, ma le loro capacità come sistema d’arma erano piuttosto modeste, limitate all’intelligence sul campo di battaglia: né armamento, né designatori del bersaglio. Solo negli ultimi giorni del conflitto furono impiegati in combattimento in cooperazione con i caccia tattici (tra cui i nostri Amx) che provvedevano a illuminare i bersagli e a colpirli. Molto tempo è trascorso, ma la lezione che il ‘99 ha fornito in tutta evidenza alle aeronautiche Nato e ai Paesi osservatori sulle potenzialità degli aeromobili a pilotaggio remoto non è stata da tutti appresa, semmai ha generato con il tempo una vera e propria asimmetria nelle capacità militari delle differenti aeronautiche, alcune delle quali, pur prestigiose, non hanno ritenuto di cogliere le preziose indicazioni fornite dal conflitto nei Balcani.

Così non è stato per l’Aeronautica italiana, la quale si è incamminata senza indugio o tentennamento alcuno verso la messa a punto di una componente unmanned con cui integrare le forze aerotattiche, e più in generale le capacità complessive di Aeronautica e Difesa, per ora. Già nel dicembre 2004, a soli cinque anni dal debutto dei droni sulla scena dei conflitti armati, l’Am inviò in Iraq i primi Predator, appena giunti dagli Usa e assemblati ad Amendola, a integrazione e rafforzamento della cornice di sicurezza predisposta per le prime elezioni politiche generali in quel Paese appena uscito da un conflitto. Poi in Afghanistan, Libia, Kuwait, nel Mediterraneo o in scenari domestici al servizio della collettività in operazioni non militari. Possiamo oggi, senza dubbio alcuno o falsa modestia, affermare che il nostro Paese ha raggiunto nel settore la più pronunciata professionalità in Europa, affiancati solo da Israele e Stati Uniti nel più ampio contesto globale.

Tutto questo a premessa di qualche considerazione, ormai più che matura, rispetto alla auspicata nascita di uno strumento militare europeo. Non esiste purtroppo, né in ambito continentale né Nato, una dottrina di impiego dello strumento militare idonea a fronteggiare scenari asimmetrici, quelli che ormai, anche in un futuro prevedibile, dovremo abituarci a considerare ricorrenti o più verosimili. In attesa che la mega macchina della Nato (a guida Usa) abbandoni le isterie anti-Putin e reindirizzi l’attenzione verso la reale questione centrale, quella di un uso corretto, efficace ed etico dello strumento militare nei veri teatri di guerra, non si può non prendere atto che la capacità unmanned avrà, a prescindere dal disegno globale, un ruolo di primo piano.

Essa sarà addirittura un fattore abilitante dell’intera macchina militare nelle sue componenti fondamentali dell’intelligence e dell’attacco a obiettivi sempre più complicati, imperscrutabili e ad alto rischio di danni collaterali. Allora ecco che il tassello della capacità di pilotaggio remoto si inserirà automaticamente e di forza nel puzzle di una complessa macchina bellica moderna, in quanto sicuramente indispensabile. Ecco quindi che già fin d’ora ci si può e deve incamminare verso la messa a punto di una capacità europea senza ulteriori tentennamenti o riserve. E come in tutte le iniziative multilaterali tra Paesi comunitari, tesse la tela chi ha più filo, prende l’iniziativa chi ha qualcosa in più e di meglio da dire, ci si appropria o si riconosce un ruolo di indirizzo trainante a chi ne può, a ragion veduta, rivendicare la titolarità. Il quadro in questo senso è piuttosto chiaro e deludente. La Francia, sempre pronta a partire da sola lanciata in testa e a sparare il primo colpo, in materia di droni è ai primi vagiti o poco più. Pare di ricordare che solo l’esperienza sul campo in Mali le abbia spalancato gli occhi sull’insostituibilità dei droni in certi contesti e che sia corsa ai ripari ordinando in fretta e furia dagli Usa alcuni sistemi Predator; sistemi dei quali dispongono da qualche anno pur se i nostri amici d’oltralpe non hanno timore a dichiarare che nel settore hanno realizzato un centro di eccellenza, che però nessuno ha mai visto.

Meglio la Gran Bretagna, che ha succhiato da Stati Uniti e Israele la professionalità che questi due Paesi hanno ritenuto di poter rendere disponibile, impiego tattico dei mezzi o poco più. E sebbene in ritardo, ci hanno affiancato in Iraq dove noi eravamo già da tempo, chiedendo e ricevendo il nostro supporto, per poi ritrovarci in Afghanistan dove il Regno Unito ha iniziato a consolidare una più marcata, e tuttavia sempre limitata, capacità operativa. Se quindi Uk si è iscritta al liceo e la Francia alle elementari, gli altri Paesi europei vanno convinti ad avviarsi verso le scuole dell’obbligo, più o meno. Tranne la Turchia, Paese a noi affine anche se non europeo, che ha affrontato la questione droni con molta serietà e che si è incamminata su un percorso di crescita capacitiva.

Per questo, l’Italia non può ulteriormente sottrarsi al diritto/dovere di aspirare, per il bene dell’Europa della difesa, a un ruolo trainante nello specifico settore, accantonando timidezze fuori luogo ogni volta che qualcuno accampi velleità di leadership estendendo impropriamente al campo tecnico militare le proprie dimensioni complessive, vere o presunte. A onor del vero, per l’Italia ovviamente c’è anche da ricordare che è l’unico Paese al mondo capace di far volare gli Apr (Aeromobili a pilotaggio remoto) su tutto il proprio territorio, grazie a una innovativa normativa sulla gestione dello spazio aereo nazionale, figlia di una pregevole collaborazione tra Am ed Enav, che riesce a gestire in maniera flessibile e dinamica vettori manned e unmanned, confermandosi ancora una volta precursore nell’arduo obiettivo della completa condivisione dello spazio aereo tra i vettori tradizionali e gli Apr. Nessuno, infatti, è oggi in grado, più e meglio di noi, di dettare la dottrina di impiego degli Uav, di formare gli operatori di sistema, di individuare appropriati criteri di impiego nei più disparati teatri operativi (anche non militari), e di redigere i conseguenti ordini di intervento, di indirizzare l’industria verso la scelta dei giusti requisiti tecnico operativi per la progettazione e lo sviluppo dei sistemi, a evitare che, come spesso accade, sia poi l’industria stessa ad imporli agli utilizzatori.

Leonardo Tricarico è presidente della Fondazione Icsa e già capo di Stato maggiore dell’Aeronautica

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