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Chi teme la concorrenza di Amazon, Google e Facebook

Di Dana Mattioli

I banchieri d’investimento si sono ormai abituati a essere interpellati da accigliati amministratori delegati del settore retail intenti a elaborare progetti di acquisizioni per proteggersi da Amazon. Ora la paura si è diffusa a media, sanità e a molti altri comparti, i cui top manager sono terrorizzati dall’incredibile espansione delle attività messa a segno anche da Facebook, Google e Netflix. Il risultato è un’esplosione di fusioni e acquisizioni. Solo da inizio novembre negli Stati Uniti sono state annunciate operazioni per circa 200 miliardi di dollari (dati Dealogic). Novembre è sulla buona strada per diventare il secondo mes di assoluto e per l’attività di deal-making dal 1995, ossia da quando sono iniziati i rilevamenti. Tre recenti operazioni (ancora in fase di trattativa o in attesa di approvazione) dimostrano in modo particolarmente drammatico l’impatto di Amazon e degli altri giganti della tecnologia sull’attività di merger&acquisition.

Prima operazione: entro fine novembre Cvs Health potrebbe raggiungere un accordo definitivo per l’assorbimento di Aetna per oltre 66 miliardi di dollari, dando così vita all’unione tra due aziende con poche sovrapposizioni operative. La possibilità che il colosso fondato da Jeff Bezos entri nel settore farmaceutico ha spinto i dirigenti di Cvs ad assorbire un assicuratore sanitario, da cui deriverebbe un utilizzo migliore dello spazio di vendita. La catena di drugstore potrebbe vendere polizze, fare prelievi del sangue e fornire altri servizi che Amazon non è in grado di replicare facilmente.

Seconda operazione: per circa 85 miliardi di dollari il connubio AT&T-Time Warner, ora a rischio stop da parte del Dipartimento di giustizia Usa, combinerebbe l’enorme ma lento business della telefonia mobile e della DirecTv con una macchina di contenuti che include Time Warner, cui fanno capo Cnn e Hbo. Stando all’amministratore delegato Randall Stephenson, l’obiettivo dell’operazione è innalzare un baluardo contro Facebook e Google, che hanno costruito posizioni «incredibilmente solide» nel mercato pubblicitario.

In una dichiarazione al Wall Street Journal Stephenson ha aggiunto: «Le tech company stanno spendendo miliardi di dollari per creare contenuti e distribuirli direttamente ai consumatori». L’acquisto di AT&T «offre a Time Warner l’opportunità di fare lo stesso, su più piattaforme e con modelli a sponsorizzazione pubblicitaria che costano meno ai consumatori».

Terza operazione: la manifestazione di interesse di Walt Disney per una grossa fetta di 21st Century Fox, che ha un valore borsistico di circa 57 miliardi di dollari, è stata stimolata anche dal successo di Netflix . I canali via cavo della casa di Topolino stanno accusando il cord-cutting. In agosto la società ha annunciato il lancio di due servizi di streaming online in abbonamento con sport, film e programmi televisivi. E non concederà a Netflix le future uscite. In autunno Disney ha contattato Fox per un’intesa dalla quale avrebbe guadagnato maggiori contenuti e risorse per la distribuzione con lo scopo di calcare la mano contro lo sfidante di Los Gatos. «Il nostro obiettivo è essere un attore sostenibile nello spazio direct-to-consumer, che tutti sappiamo essere molto interessante», ha confermato di recente il presidente e ceo della Disney Robert Iger ad analisti e investitori. Le trattative Disney-Fox sono in stallo, ma sembra abbiano stuzzicato l’interesse di Comcast, Verizon, Sony e di altri potenziali acquirenti per asset quali lo studio cinematografico e l’unità internazionale.

Ogni ciclo di m&a è diverso. Il boom del 2015 è stato in gran parte caratterizzato da accordi tra concorrenti diretti intenti ad aumentare le dimensioni e tagliare i costi. Alcuni volevano abbassare le tasse trasferendo la sede fuori dagli Stati Uniti. Il giro d’affari in decine di miliardi di dollari ha polverizzato diversi record. L’emblema del periodo è rappresentato dalle mega-fusioni, come l’accordo Pfizer-Allergan per circa 150 miliardi di dollari, poi bloccato dall’amministrazione Obama.

Prima della crisi finanziaria i leveraged buyout hanno dominato la scena. Durante l’ondata tech i gruppi si sono affrettati a portare a termine mosse offensive per esordire in nuove linee di business, come la sfortunata fusione di Aol e Time Warner.
A oggi il volume delle fusioni statunitensi ammonta a 1,22 mila miliardi di dollari, in calo del 18% rispetto al 2016. I banchieri d’investimento attribuiscono il declino principalmente all’incertezza relativa alla politica federale fiscale e di antitrust.

La recente ondata di m&a segnala invece la presenza di altri driver. Il debito rimane facilmente disponibile ed economico e le elevate quotazioni azionarie vanno spesso di pari passo con fusioni e acquisizioni. Gli azionisti hanno premiato i soggetti acquirenti nell’ambito di una serie di recenti operazioni, il che è ulteriore motivo di incoraggiamento e riporta alla mente il 2015. A inizio mese Broadcom ha lanciato un’offerta non amichevole del valore di 105 miliardi di dollari per rilevare Qualcomm. Poteva essere il più grande takeover in campo tecnologico di sempre se non fosse stato respinto in quanto il produttore di chip di San Diego riteneva la valutazione inadeguata. Per molte aziende è ancora difficile accettare una fusione o un’acquisizione, per non parlare dell’approvazione da parte degli azionisti e delle autorità di regolamentazione. Sprint e T-Mobile Us hanno recentemente abbandonato un impegno durato mesi volto a combinare il terzo e il quarto operatore wireless negli Stati Uniti per divergenze sul controllo. Mentre le azioni di Time Warner sono crollate in seguito all’anticipazione del Wall Street Journal di inizio mese in merito all’ipotesi che il Dipartimento di Giustizia potesse costituirsi parte civile per bloccare il deal con AT&T. La causa è stata presentata lunedì.

Tuttavia l’interesse per il deal-making è forte e in crescita in molte società su cui incombe la concorrenza di giganti della tecnologia. Ultimamente questi player hanno chiuso poche consistenti operazioni, ad eccezione dell’acquisto in agosto di Whole Foods da parte di Amazon per circa 13 miliardi di dollari. I banchieri d’investimento che assistono le catene di supermercati affermano di essere stati inondati di telefonate. La capacità del big dell’e-commerce di entrare in questo business dall’oggi al domani ha fatto tremare un’industria già afflitta da sottili margini di profitto. «Lo vedo in quasi tutti i settori», afferma Steven Baronoff, presidente delle operazioni di m&a di BofA Merrill Lynch. «Queste società stanno inducendo gli amministratori delegati a rendersi conto che forse l’autonomia non è così praticabile».

Pochi analisti o investitori avevano previsto la notizia data dal Wall Street Journal in ottobre sulle trattative di Cvs (dotato di una rete di oltre 9.700 punti vendita, oltre a 1.100 cliniche ambulatoriali e a un servizio di assistenza che funge da intermediario tra compagnie farmaceutiche e assicuratori) per l’acquisto di Aetna, uno dei più grandi assicuratori sanitari a stelle e strisce. La paura per la crescente concorrenza di Amazon ha contribuito a spingere Cvs ad allargare le prospettive nella ricerca di un partner. Inoltre Cvs vede Aetna come un mezzo per rimodellarsi al centro di un più ampio rimpasto del settore sanitario e rafforzare la leva della newco nella contrattazione con le aziende farmaceutiche, fornendo allo stesso tempo una preziosa raccolta di dati. In effetti, Cvs aveva iniziato a valutare la transazione prima che Cnbc rivelasse a maggio che Amazon stava studiando l’incursione nel pharma. Cvs doveva già affrontare il problema della gestione dei punti vendita. La possibilità che il retailer online di Seattle potesse diventare un rivale nel core business ha incrementato il desiderio di un accordo che avrebbe ulteriormente diversificato l’azienda e contribuito al riutilizzo dei drugstore di proprietà. Dunque il board ha richiesto al management di stimare i potenziali effetti e di escogitare un contrattacco. Pertanto il dipartimento marketing di Cvs e i consulenti esterni hanno valutato la percorribilità di una partnership con il nemico, ma un’alleanza pareva improbabile a causa della storica resistenza di Amazon a tali soluzioni.

Anche altre aree dell’healthcare sentono il fiato sul collo. Le società del settore dei servizi di assistenza sanitaria si credevano immuni. Dopo aver iniziato con guanti chirurgici a basso margine, abbassalingua e altri articoli, Amazon ora vende i 20 articoli base di cui ogni medico o dentista ha bisogno, dice il vicepresidente dell’investment banking di Ubs Jim Forbes.
Invece, Carl’s Jr. ha adottato una sfacciata attitudine alla filosofia del «se non puoi batterli, unisciti a loro». Il mese scorso la catena di fast-food di proprietà di Cke Restaurants Holdings ha twittato: «Hey @Amazon compraci. Davvero. Facciamolo. Cambiamo il futuro della ristorazione!! #AmazonBuyUs». Nessuna traccia di un simile interesse da parte del big del web, per ora.

Fonte: The Wall Street Journal

Traduzione di Giorgia Crespi

(Articolo pubblicato su MF/Milano Finanza, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi)

 

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