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Forse le ultime due visite alla corte saudita possono spiegare lo stato attuale della questione palestinese

Ieri il Veep americano Mike Pence sarebbe dovuto partire per il Medio Oriente in un viaggio in cui avrebbe fatto tappa in Israele, Palestina, Egitto. Incontri previsti con il premier israeliano Benjamin Netanyahu, il presidente dell’Autorità palestinese Mohamoud Abbas, Ahmed al-Tayeb di al Azhar, il papa copto Tawadros II.

Poi il 6 dicembre Trump ha dichiarato Gerusalemme capitale unica di Israele, sollevandosi contro mezzo mondo. Il viaggio di Pence è stato velocemente menomato dei meeting con Abbas, al Tayeb e Tawadros. Secondo lo schedule ufficiale della vicepresidenza erano rimasti solo due bilaterali con il primo ministro israeliano e il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi.

Alla fine Pence non è nemmeno partito (su queste colonne Marco Orioles ha approfondito varie sfaccettature dietro al viaggio e al suo rinvio): il tour è stato posticipatoperché il voto del vicepresidente poteva essere importante per far passare la tax plan al Senato. La riforma fiscale “epocale”, come piace chiamarla all’amministrazione e ai repubblicani, è stata votata stanotte, e alla fine non è servito il voto di spariglia di Pence (ma è passato comunque sul filo del 51 a 48).

La visita mediorientale invece è rimandata a gennaio, magari in un momento in cui le cose si saranno calmante. Intanto oggi Abbas era alla corte di Riad, dove ha visto re Salman e suo figlio, erede al trono e policy maker saudita a tutto campo, Mohammed bin Salman. Due giorni fa in quelle stesse stanze c’era Mike Pompeo, il capo della Cia che Donald Trump potrebbe presto passare al ruolo di segretario di Stato. Pompeo incarna il cuore della linea anti-iraniana dell’amministrazione Trump, e per questo le due ultime visita alla corte saudita potrebbero avere uno stesso senso.

Pompeo potrebbe essere andato a chiedere disponibilità ai sauditi, offrendone di propria: Riad, nell’idea americana, dovrebbe restare su un livello di protesta minimo riguardo alla mossa di Trump su Gerusalemme (mantenendo, per quando possibile, controllabile l’uprising regionale), perché Washington può fornire assistenza la piano di confronto generale che bin Salman sta portando avanti contro l’Iran. E su questa traiettoria potrebbe posizionarsi anche Israele, tirata pure dagli americani. In effetti, non sono stati pochi in questi ultimi mesi i segnali su un avvicinamento informale tra israeliani e sauditi– argomento deviato tra gli imbarazzi di questi ultimi, ma scambi di informazioni di intelligence in chiave anti-iraniana pare siano già in corso.

Contemporaneamente, la convocazione/visita di Abbas a Riad potrebbe essere stata un passo d’immagine necessario per Salman, un modo per non far sollevare troppo gli umori di chi pensa che per l’allineamento occidentale stia restando indietro sulle questioni che interessano i musulmani (la storia palestinese è intrisa di questa retorica, Riad difende i luoghi sacri dell’Islam, e tutto serve al piano di rinnovamento saudita meno che sollevamenti e ritorsioni). Da qui le dichiarazioni di rito sul valore di Gerusalemme per i palestinesi. Abbas potrebbe anche aver ricevuto un avviso sulle strategia che bin Salman sta pensando di portare avanti: tagliando con l’accetta, MbS potrebbe sacrificare la questione palestinese per bloccare in modo più deciso l’Iran, anche grazie a partner come Israele e Stati Uniti (e Trump avrebbe scelto il momento adatto per spingere una visione storica americana pro-israeliana). D’altronde, come già s’è scritto, da Teheran si sta sfruttando la situazione in modo opposto, fomentando la gente in Palestina e spingendo i gruppi armati a escalation contro Israele (e implicitamente contro Arabia Saudita e Stati Uniti, pezzi di uno stesso asse).

(Foto: KSA Official)

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