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Come la Francia sta facendo shopping di aziende in Italia

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C’è un passo del libro di Roberto Napoletano – “Il cigno nero e il Cavaliere bianco” (edito da “La nave di Teseo“) – in libreria nei prossimi giorni, che non può passare sotto silenzio. Sostiene l’autore, riferendosi ad una parte dell’establishment francese: “Nei circoli internazionali il ragionamento politico prevalente dà per acquisito che i francesi vogliono conquistare il Nord dell’Italia e magari lasciare che il Sud diventi una grande tendopoli per gli immigrati di tutto il mondo”. Disegno cinico ed allarmante, se si vuole. Ma che, in uno scenario probabilistico, assume un significato preciso. E che rimanda ad un interrogativo più ampio. Quale saranno le conseguenze del prevalere di quell’asse franco-tedesco, che già qualche danno ha prodotto all’Italia – si pensi alla crisi del 2011 – ma che rischia di essere poca cosa rispetto ad un più drammatico futuro?

Rispondere a una simile domanda, correlata da robusti elementi empirici, non è semplice. Qualche indizio è tuttavia evidente. Francia e Germania non sono tra loro competitor rispetto alla sponda italica, salvo forse per quanto riguarda la possibile partita sulle Generali: la cassaforte, seppure malandata, di quel che resta del grande arcipelago assicurativo – e non solo – italiano. Il rapporto prevalente tra l’industria italiana, stanziata soprattutto al Nord, e la Germania è, in prevalenza, di tipo “terzista”. Nel nostro Paese si realizzano quei prodotti intermedi che alimentano le grande industrie del “made in Germany”. Si pensi solo alla Brembo: azienda leader nella tecnologia dei freni a disco per i diversi tipi di veicoli, compresi i motocicli. Interesse tedesco è soprattutto quello della stabilità finanziaria del nostro Paese: onde evitare possibili default, che potrebbero mettere in discussione l’esistenza stessa dell’euro. Così come lo conosciamo.

La strategia francese è diversa. Punta soprattutto all’acquisizione di asset. Strategia che, a volte, mira alle posizioni di controllo. Com’è avvenuto per il lusso. Negli anni il gruppo Kering (ex PPR) ha fatto shopping di griffe come Gucci, Brioni, Pomellato e Bottega veneta. Il suo diretto concorrente, LVMH (di proprietà di Bernard Arnault) ha rilevato Emilio Pucci. Quindi, in compartecipazione con Prada, Fendi. Ed infine Bulgari e Loro Piana. Altre volte punta alla joint venture, com’è avvenuto con la Luxottica di Del Vecchio, che si è fusa con Essilor appartenente sempre allo stesso Arnault. Sul fronte delle telecomunicazione, opera da tempo Vincent Bolloré, che ha conquistato Telecom con una quota pari a circa il 25 per cento del capitale. E che, recentemente, ha tentato il colpo grosso nei confronti di Mediaset, dopo aver denunciato l’accordo già sottoscritto per l’acquisto di Premium. Oggi controlla circa il 29 per cento del capitale del Biscione. La sua idea è quella di realizzare un gruppo multimediale a livello europeo con Canal+ e Universal Music. Fenomeni che hanno allarmato il governo italiano, deciso ad usare la golden power per blindare l’italianità delle imprese (la Telecom) d’importanza strategica.

Altro boccone ghiotto, l’energia. Come mostra il possesso da parte di Edf della Edison, realizzato nel 2012. E l’acquisto da parte di GdF Suez del 23 per cento del capitale Acea. Mentre per quanto riguarda il food e la grande distribuzione, gli acquisti hanno riguardato: Parmalat, Eridiana, la catena dei supermercati GS (il vecchio gruppo fondato da Guido Caprotti) che oggi opera sotto il marchio Carrefour: leader mondiale nella grande distribuzione. Né poteva mancare l’interesse per le banche. Alla storica acquisizione della Banca nazionale del lavoro, da parte di Bnp-Parisbas, hanno fatto da complemento quella di Carifarma e della Banca popolare di Friulandria alla Crédit Agricole. Più recentemente la cessione di Groupama e Nuova Tirrena, compagnie di assicurazioni. Mentre la Pioneer veniva venduta da Unicredit all’Amundi. Già Unicredit che, proprio in questi giorni, ha trasferito la sua sede da Roma a Milano e si è trasformata in una pubblic company, il cui capitale è controllato per il 75 per cento da gruppi stranieri. Ma su questo toccherà ritornarci.

Secondo Kpmg, nel 2016 le acquisizioni francesi in Italia hanno riguardato 34 medie aziende italiane, per un controvalore pari a 3,1 miliardi di euro, senza contare i 3,5 miliardi di Pioneer. Per contro le acquisizioni italiane in Francia sono state pari a 2,5 miliardi ed hanno riguardato 21 aziende. Società, tuttavia, che non avevano la stessa valenza strategica. Quando si è cercato di alzare il tiro, come nel caso della Stx France, da parte di Fincantieri, è giunto puntuale il veto delle Autorità. Sebbene quest’ultima fosse controllata dalla coreana Stx Offshore & Shipbuilding e dallo Stato stesso di quel Paese. Semaforo verde invece per l’acquisto, da parte di Atlantia, dell’aeroporto di Nizza; di Lavazza che ha rilevato le Cart Noire e per Campari che conquistato Grand Marnier. In 10 anni, comunque, a fronte di un investimento francese, in Italia, pari a 52,3 miliardi, l’Italia ha controreplicato con soli 7,6 miliardi. Davide e Golia.

Si diceva prima di Unicredit. Il trasferimento di sede assume, inevitabilmente, un significato simbolico. Il suo amministratore delegato – Jean Pierre Mustier – ha più volte smentito che la sua nazionalità (ovviamente francese) fosse la premessa di un cambio di rotta. Una banca sempre più orientata verso la Francia ed il mercato internazionale. Nessun dubbio in merito. Ma al di là delle volontà soggettive contano, in questi casi, i processi reali. Lo sviluppo economico italiano si sta divaricando tra un Nord che non solo regge il ritmo, ma mostra, come nel caso di Milano, una grande vitalità ed un Mezzogiorno, anzi un centro-sud, (il caso di Roma e del Lazio) che arretra sensibilmente. Ed allora non è necessario vestire i panni della marsigliese per dare corpo alle ombre evocate da Roberto Napoletano.

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