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Cosa deve fare l’Italia per diventare un Paese per start-up

“L’Italia del 2017 è il posto perfetto per lanciare una start-up, ma non per farla crescere”. Roberto Macina (nella foto) è il fondatore di Qurami, una delle aziende digital made in Italy che “ce l’hanno fatta”. Come molti altri esempi, Qurami è nata da un’esigenza: evitare le code agli sportelli. Partendo da quest’idea, Macina e il suo team hanno elaborato un’applicazione che – negli uffici convenzionati – consente all’utente di “staccare il numero” tramite lo smartphone e quindi di monitorare in tempo reale, a distanza, quante persone restano in fila davanti di lui. Qurami è nata nel 2010, conta una decina di dipendenti, e ormai di fatto ha superato la fase di start-up ed è classificata come una piccola-media impresa

I NUMERI DELLE START-UP

Lo sviluppo delle aziende digital in Italia è impressionante: secondo l’ultimo report di Infocamere, dall’inizio dell’anno a settembre ne sono nate più di tremila (+ 2,3%), con un valore della produzione cresciuto del 9,2%, il doppio rispetto alla media degli altri settori. Numeri che sono ancora molto inferiori rispetto ad altri Paesi (Usa e Regno Unito, per esempio), ma che certificano comunque che la spinta digital contagia anche l’Italia. Del resto, già da anni i vari governi che si sono susseguiti hanno attuato politiche a sostegno del settore, prevedendo sgravi fiscali, incentivi e semplificando le procedure di avvio di nuove imprese. Permangono comunque luci e ombre. La “mortalità” è alta: secondo i dati forniti dal Cgia, l’associazione degli artigiani di Mestre, un’azienda su due chiude prima di 5 anni. Sono in molti, quindi a interrogarsi se quanto fatto finora sia abbastanza e a chiedersi quali mosse mettere in campo per far sì che il “boom” digitale non resti un fuoco di paglia.

LA FASE DI AVVIO

“Da quando ho iniziato io, nel 2010, è passata un’era geologica – spiega Macina – Oggi ci sono molti incubatori di impresa, fondi pubblici, aziende che finanziano. Basta avere un’idea innovativa, un prototipo semi-funzionante e un buon team, ed è relativamente facile tirare su 100-150mila euro per partire. Ai miei tempi non era così: per noi fu un’impresa raccogliere i 40mila euro per avviare l’attività”.

Il contesto è cambiato perché, prosegue il fondatore di Qurami, “oggi esistono soggetti il cui business è il finanziamento delle start-up. Solo a Roma ce ne sono almeno quattro. Poi ci sono le grandi aziende che avviano programmi di open innovation, con l’obiettivo di acquisire le tecnologie dai soggetti innovatori”. Anche a questo servono gli hackathon, degli eventi organizzati per mettere in collegamento chi offre una nuova tecnologia e chi possiede il capitale da investire.

PARTIRE È FACILE, CRESCERE MENO

Insomma, dare il calcio di inizio alla propria start-up non è così complicato. “Quello che manca è il sostegno alla fase di crescita – approfondisce Macina – Ci sono molti finanziatori che danno pochi fondi a molti soggetti, ma non altrettanti disposti a sostenere la fase successiva, più onerosa. In America, dopo la fase iniziale di rodaggio, si investono milioni nelle aziende, per promuovere marketing, comunicazione e sviluppo. In Italia questo manca ancora: è facile partire, è difficilissimo crescere”.

Secondo il fondatore di Qurami, l’aiuto delle istituzioni non guasterebbe . “Non significa che lo Stato debba finanziare le aziende, quel ruolo spetta agli imprenditori – precisa – Ma la pubblica amministrazione dovrebbe diventare il primo cliente delle aziende digitali. Prendiamo il nostro caso: noi abbiamo rapporti con le Asl e potremmo in teoria aumentare i nostri clienti, ma è sempre un’impresa capire con chi trattare, nelle Regioni. Perché non c’è un assessore dedicato che svolga funzioni di raccordo fra la PA e le imprese? Perché per queste cose manca ancora la giusta sensibilità”.

IL RUOLO DELLA BUROCRAZIA 

C’è poi il tema della leggendaria burocrazia italiana, quella che, almeno in teoria, gli ultimi governi hanno cercato di snellire. In parte, a sentir Macina, ci sono riusciti. “Ho sicuramente visto dei miglioramenti: oggi si possono ricevere ordini e fare fatture in maniera digitale, si può avviare un’azienda senza bisogno del notaio. Di sicuro le cose migliori le ha fatte il governo Monti, il primo a definire il concetto di di start-up innovativa, prevedendo sgravi e sostegno gli investimenti. Ma molto resta da fare, specie sui bandi: qui ancora le barriere sono eccessive, per accedere ai fondi bisogna attraversare un labirinto di carte bollate”.

LE SFIDE PER IL FUTURO

L’allarme scatta quando le aziende italiane si affacciano sul mercato estero: spesso si schiantano. “Fuori dall’Italia non siamo competitivi. Non perché manchi la tecnologia: mancano i soldi. Il prodotto, da solo, non basta, serve personale nuovo, serve una strategia di marketing, serve un accesso al credito facilitato. Ad oggi, l’80% del credito concesso dalle banche è coperto dal fondo di garanzia, ma si può fare di più. Mi piace sentir dire che l’Italia si sta riprendendo grazie alle start-up, ma sarebbe bello che non lo si dicesse soltanto in campagna elettorale. Noi imprenditori non cerchiamo fondi pubblici, ma vogliamo la possibilità di farci conoscere. La politica dovrebbe metterci nelle condizioni di poterlo fare”.

Manca anche la giusta cultura d’impresa, anche per quanto riguarda i cosiddetti incubatori di start-up. “Nella Silicon Valley esiste una filiera che connette i vari finanziatori: c’è chi sostiene l’avvio di un’azienda, chi il consolidamento, ed è un vero e proprio ecosistema. In Italia sta nascendo qualcosa del genere ma ancora non basta. Qui capita che il finanziatore di Roma non parli con quello di Milano: manca la giusta collaborazione”.

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