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L’Onu vuole nuove elezioni in Libia per sbloccare lo stallo della crisi interna

libia salamè

Tecnicamente l’accordo necessario per stabilizzare politicamente la crisi libica innescatata dopo la decapitazione del rais Muammar Gheddafi sarebbe scaduto il 17 dicembre: il Libyan Political Agreement (acronimo Lpa) è stato infatti chiuso dalle Nazioni Unite il 17 dicembre del 2015 e tra i suoi principali obiettivi c’era quello di traghettare, nell’arco di due anni, il paese nordafricano verso modifiche costituzionali che avrebbero dovuto portare alle elezioni legislative e alla formazione di un governo (eletto). Per fare questo era stato nominato un organismo temporaneo – va sotto il nome di Presidential Council – che avrebbe dovuto creare un governo di accordo nazionale (seguendo gli acronimi, che nel mondo anglosassone piacciono molto, verrà definito anche Gna). A questo punto – si ripete: tecnicamente – il Gna avrebbe già dovuto aver finito il proprio compito e consegnato la Libia sotto il potere di un governo eletto.

LA CRISI 

Si è scritto “tecnicamente” perché in realtà per il momento la soluzione scelta sembra essere diversa (ci si arriverà, ndr). Al momento le due parti che si dividevano il paese e che secondo l’accordo nazionale pensato dall’Onu avrebbero dovuto riconciliarsi sotto gli sforzi degli organismi internazionali (l’Onu stesso, ma anche l’Unione Europea, per esempio), sono distanti più o meno come prima del 2015. Tra l’Est e l’Ovest libico la guerra non è aperta, ma nemmeno chiusa, e ci sono scontri e focolai di combattimento pronti a riprendere fuoco. Ad Ovest il potere è attualmente incarnato dal premier designato dall’Onu, Fayez Serraj: aveva il compito di costituire il governo transitorio Gna, riunendo su di sé tutte le varie fazioni, intavolando un percorso comune per arrivare alle elezioni e al nuovo governo, ma Serraj non è mai riuscito formalmente a costituire il governo d’accordo, perché secondo il Lpa per farlo serviva l’avallo politico del parlamento ultimo eletto, attualmente rifugiato a Tobruk e tenuto sotto scacco da chi controlla l’altro grande potere regionale libico, quello dell’Est. La fascia orientale è in mano al maresciallo di campo Khalifa Haftar (e ai suoi partner politici all’interno del parlamento), che ha coperto con una volonterosa missione anti-terrorismo le sue ambizioni politiche pseudo-totalitarie sulla Libia. Il paese era un hotspot nevralgico dell’IS, in effetti, ma la roccaforte di Sirte non è stata distrutta da Haftar, ma dai combattenti misuratini alleati di Serraj, coperti dal fuoco aereo dei velivoli americani che decollavano dal Mediterraneo. Però Haftar, nonostante non goda di formale riconoscimento e secondo l’Onu sarebbe dovuto sparire due anni fa, è sempre lì, e questo gli ha permesso di guadagnare crediti – informali – e di diventare un interlocutore necessario.

LO STALLO 

A complicare la vita a Serraj non ci sono soltanto le ambizioni di Haftar, che gode comunque di un sostegno esterno importante (dall’Egitto agli Emirati Arabi, fino alla Russia), ma anche l’opposizione di alcuni gruppi di potere nella fascia occidentale. Le milizie tripoline detestano Haftar, ma detestano ancora di più un processo politico imposto dall’esterno (come quello onusiano, appunto) e fanno opposizione – possibile anche che, se invece del misuratino Serraj fosse stato scelto come sparring partner dal Palazzo di Vetro un uomo tra questi gruppi politico-militari di Tripoli, le cose sarebbero andate diversamente, a loro modo di vedere. Il delicato processo di unificazione, oltre alle divisioni interne (fatte di invidie, lotte di potere, bramosie economiche, divisioni etniche e tribali) è alterato anche dagli interessi esterni: molti attori hanno a cuore la crisi libica, ma non tanto dal punto di vista umanitario, quanto da quello politico. Risolverlo significherebbe stabilizzare un’area che, ad esempio, è il rubinetto di ingresso dei migranti sulla rotta mediterranea; o ancora, c’è il Lia, il grande fondo sovrano di investimento, che ha interessi piazzati in vari ambiti internazionali; oppure il petrolio. La Libia è il paese africano con più risorse energetiche (c’è anche il gas) e ha una produzione di petrolio tornata in crescita. Ma la situazione del greggio è instabile, un esempio: in seguito a un’esplosione provocata da un commando di uomini armati in un oleodotto libico, martedì il prezzo del greggio è aumentato fino a raggiungere i livelli del maggio 2015. L’oleodotto colpito porta al terminale di Al Sider, in Cirenaica, e si prevede che per i danni derivanti dall’attacco diminuirà di 90 mila barili al giorno la produzione libica. La sovrapposizione delle problematiche interne (gli scontri tra gruppi armati) e gli asset cruciali, è la preoccupazione degli attori internazionali che si muovono sulla Libia.

LE ELEZIONI

Haftar s’è costruito un ruolo via via crescente, creando i presupposti per emendare alcuni aspetti del Lpa. Il maresciallo di campo s’è preso credibilità con le armi e col sostegno diplomatico russo (soprattutto), per questo molti governi occidentali – tra cui quello italiano, particolarmente coinvolto nella soluzione della crisi – lo hanno iniziato a trattare come un pezzo imprenscindibile per chiudere il puzzle. Il delegato Onu Gassam Salamé ha cercato negli ultimi mesi di modificare l’accordo del 2015, anche inserendo aspetti a lui favorevoli, ma non si è arrivati a un punto di incontro. D’altronde la deadline del 17 si stava avvicinando, e lo stesso Haftar ha dichiarato: “Le forze armate libiche (chiama così la milizia che comanda, ndr) non saranno mai sotto la guida di alcun corpo non eletto (riferendosi al Gna, ndr), ma risponderanno sempre agli ordini del popolo libico”, ed è un chiaro messaggio sul fallimento di Serraj,  un invito a lasciare. Ora Serraj e il suo zoppo Gna sono sotto la proroga temporanea del supporto onusiano ed europeo (qualche giorno fa anche gli Stati Uniti hanno ribadito la fiducia in Serraj, sebbene pure Washington abbia intavolato dialoghi anche con Haftar). Ma il punto attuale è lo stallo, perché nessuno dei due centri di potere può prevaricare l’altro. Salamé ha così proposto nuove elezioni (da tenersi già in primavera?). Serraj non ha più forza (se non dopo un mandato popolare) ma “il suo rivale basato a Tobruk è ancora più disperato. Entrambi i governi hanno poco da offrire per alleviare la miseria quotidiana delle persone che dovrebbero servire, e non è chiaro se Haftar accetterà le elezioni nella Libia orientale, che controlla”, scrive su Al Monitor l’accademico libico Mustafa Fetouri. Fetouri sostiene che l’idea di Salamé di usare le elezioni come elemento di stabilizzazione in questa fase in cui la crisi non vede sbocchi può essere buona, “ma tenere le elezioni in tali circostanze è una grande scommessa”: in Libia c’è una crisi di sicurezza (l’esplosione all’oleodotto è un ultimo passaggio, qualche giorno fa, per esempio, è stato rapito e ucciso da ignoti il sindaco di Misurata), il sud del paese è un territorio ancora senza legge dove le forze costiere non si allungano e comandano gruppi etnici locali (da poco riavvicinati sotto egida Onu), manca una costituzione, manca l’attività politica democratica.

(Foto: Wikipedia, il delegato Onu per la Libia Gassam Salamé)

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