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Cosa succederà dopo l’uscita di Dina Powell dalla Casa Bianca

Due giorni fa il Washington Post è stato il primo ad annunciare che tra poche settimane Dina Powell, la vice del Consigliere per la Sicurezza nazionale, HR McMaster, si dimetterà dal suo ruolo. All’articolo del WaPo, informato da fonti interne al consiglio – che è un organo consultivo che indica alla Casa Bianca le policy da adottare su argomenti centrali come esteri, difesa, sicurezza, ma anche economia e commercio – sono seguite conferme di altri media, finché la portavoce del presidente Donald Trump, Sarah Sanders, non ha replicato che si tratta di una decisione nota, niente di sconvolgente.

POWELL TEME DI GIOCARSI L’IMMAGINE?

In effetti Powell aveva programmato già ai tempi in cui accettò l’incarico di lasciare Washington e tornare a vivere a New York – là si trova ancora la sua famiglia, mentre lei vive in hotel nella capitale, dice una fonte di Vanity Fair – entro un anno: ora, il documento sulla strategia per la Sicurezza nazionale è stato chiuso (l’NSS è uno dei più importanti documenti programmatici del governo americano e sarà presentato a breve) e il suo lavoro è dunque formalmente, o apparentemente, concluso. Però, sempre su Vanity Fair, un amico della Powell dice anche (anonimamente) che lei un po’ teme che la permanenza “in questa caotica Casa Bianca” possa danneggiare la sua immagine. Powell è una policy maker di fama internazionale, è molto apprezzata in Medio Oriente, dove ha entrature ottime sviluppate sia con la carriera e sia per capacità personali; inoltre è copta egiziana, conosce l’arabo come madre lingua, per esempio: è stata lei l’organizzatrice minuziosa dell’imponente viaggio in Arabia Saudita e Golfo del team Trump a maggio, da cui sono usciti gli accordi che permettono a Riad e Abu Dhabi di sentirsi le spalle coperte nell’esternare le proprie politiche aggressive nei confronti dell’Iran (accordi che stanno alterando il delicato disequilibrio regionale).

LE BEGHE INTERNE

Con ogni probabilità colei che le succederà sarà Nadia Schadlow, attualmente assistente di primo livello di Powell, con cui ha lavorato fino a questi giorni alla NSS. Negli equilibri interni alla West Wing poco dovrebbe cambiare: Schadlow è, come Powell, molto vicina a McMaster, e dunque parte del circolo dei normalizzatori che lavora per minimizzare le spinte, ora dall’esterno, dei falchi trumpiani tipo l’ex consigliere Steve Bannon. Powell è molto vicina a quelli che Bannon definisce “i globalisti”, rappresentati dagli Ivankners – la coppia Ivanka Trump e il genero-in-chief Jared Kushner ora leggermente in flessione di potere; secondo le fonti del WaPo, inoltre, Powell non sarà l’unica a lasciare Trump  con l’inizio del nuovo anno, e parecchi lo faranno per via di questi continui, stremanti contrasti interni tra moderati e falchi.

CONSIGLIARE TRUMP

Una volta tornata a New York, dice la Casa Bianca, Powell continuerà comunque il ruolo di advisor presidenziale sulle questioni mediorientali. Ma è ovvio che uscendo dalla Casa Bianca si perderà quel contatto diretto e continuativo che non è sostituibile con teleconferenze e chat, e dunque Trump farà a meno del suo top consigliere sul Medio Oriente, in un momento piuttosto delicato, dove per esempio la decisione del presidente di riconoscere a Gerusalemme lo status di capitale dello stato ebraico ha prodotto una serie di reazione istintive e rotto un equilibrio che – e.g. – nei prossimi giorni (dal 17 al 19) il vicepresidente Mike Pence si troverà a maneggiare in una visita di stato proprio in Israele e Palestina; Pence sarà, appunto, accompagnato da Powell, che sta cercando di ri-arrangiare l’incontro con il presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas, che non vuole più vedere il vice di Trump perché dice che con la mossa su Gerusalemme “l’America ha superato la linea rossa”.

L’ADDIO NEL CONTESTO

Il momento non è dei migliori. In soli sei mesi Trump ha distrutto ogni genere di speranza per un ruolo americano nella stabilizzazione del Medio Oriente, ha spiegato Jonathan Stevenson dell’International Institute for Strategic Studies (uno dei top-ten think tank nel mondo): da ottobre ha decertificato l’accordo sull’Iran, ha intensificato il sostegno alle più aggressive politiche saudite (dallo Yemen all’isolamento del Qatar), poi ha fatto l’annuncio divisivo su Gerusalemme, “lasciando allo stesso tempo l’iniziativa diplomatica in mano alla Russia”. Stevenson parla specificatamente della crisi siriana quando si riferisce a Mosca, ma è evidente che i russi si stiano portando avanti su diversi i terreni in Medio Oriente: per esempio, in questi giorni si sono proposti al Consiglio di sicurezza dell’Onu come mediatori per il conflitto israelo-palestinese sostenendo che Washington, con la mossa su Gerusalemme, non è più credibile come arbitro/interlocutore. Secondo l’analista attualmente la Casa Bianca sta seguendo “una provocatoria agenda regionale senza preziose capacità diplomatiche nella regione”, perché al dipartimento di Stato sono stati “svuotati” gli uffici che si occupano di Medio Oriente, non ci sono ambasciatori americani in Giordania, Turchia, Egitto, Qatar e Arabia Saudita, e “gli Stati Uniti non hanno relazioni diplomatiche ufficiali con l’Iran e le nostre ambasciate in Siria e Yemen sono chiuse”. E con l’uscita di Powell dal Consiglio di Sicurezza nazionale, Trump perderà il pezzo migliore della sua diplomazia mediorientale.

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