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Renzi, Berlusconi, Di Maio e Mattarella, il rebus del dopo voto

I sondaggi che vedono il Pd in arretramento non sono un problema solo per Renzi, ma lo sono anche per il Capo dello Stato, che sarà dominus della scena politica subito dopo le elezioni.
Mattarella infatti dovrà fare i conti con lo scenario che troverà, come è ovvio, ma non potrà forzare la situazione più di tanto, poiché la Costituzione e la prassi non gli consentiranno manovre eccessive.

Proviamo a immaginare uno andamento del voto con un Pd “debole”, cioè più vicino al 20 che al 30, con alla sua sinistra un soggetto del 6-8 in aperta ostilità a Renzi e ad ogni suo accordo a destra per un governo di larghe intese. Avremmo poi il M5S più vicino al 30 che al 20 e una coalizione di centro-destra non troppo lontana dal 40. In questo scenario la formazione di un governo è davvero molto difficile, per tre ragioni essenziali.

La prima è che il cartello Berlusconi-Salvini-Meloni sarebbe di gran lunga l’aggregato più forte, anche se non autosufficiente.
Debole per governare da solo, ma troppo forte per disunirsi dopo il voto.
Forza Italia verrebbe sottoposta a un vero e proprio bombardamento dagli alleati in caso di accordo con il Pd, anche perché ci sarebbero molti eletti nei collegi uninominali arrivati in Parlamento con i voti di tutti: non sarà facile spiegare che vanno a costituire una alleanza di governo in palese contraddizione con gli impegni presi in campagna elettorale.

La seconda ragione riguarda il ruolo del M5S, che uscirebbe dalle urne come il primo partito per voti e seggi, ma lontano dall’essere in grado di formare una maggioranza parlamentare autonoma e, al tempo stesso, sostanzialmente incapace di alleanze, proprio in virtù del successo ottenuto (Salvini non potrà allearsi con loro per le stesse ragioni per cui Berlusconi non potrà farlo con il PD).
Infine c’è la disastrata area della sinistra, dove un risultato decisamente negativo per il PD aprirebbe un confronto molto aspro dentro e fuori il partito, condizione non certo ideale per farne il perno di una alleanza di larghe intese.

Ecco perché nelle stanze dove si inizia a ragionare su cosa fare dopo il 4 marzo serpeggia da un paio di settimane una forte inquietudine, mista alla critica irriducibile verso la strategia attuata da Renzi, che ha voluto una surreale e controproducente commissione d’inchiesta sulle banche di cui lui è finito per essere l’unica vittima politica, mentre pensava di esserne il beneficiario.
Negli ultimi giorni abbiamo ascoltato le parole di Visco, Ghizzoni, Vegas e Padoan. Essi hanno spiegato, raccontato, rivelato.

Nei “sacri palazzi” è diffusa una convinzione, che non troverebbe conferme pubbliche, ma che può essere così riassunta: nessuno ha usato la clava, come pure si sarebbe potuto fare, perché se avessero scelto la “linea dura” le fibrillazioni sarebbero state ancora più forti. Insomma il senso di responsabilità ha finito per prevalere, guardando più al domani che all’oggi.

Dunque un bel rebus, che allo stato non conosce strada maestra per l’uscita del labirinto. Certo, a Palazzo Chigi c’è Paolo Gentiloni, che gode della stima di tutti. Ma non si può dimenticare che la fiducia del Parlamento al governo non si trasferisce da una legislatura all’altra. La “bilocazione” parlamentare non è ancora stata inventata, per quanta fantasia si possa mettere in campo tra Montecitorio e Palazzo Madama.

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