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Cosa succederà dopo la morte di Ali Abdullah Saleh in Yemen

Ali Abdullah Saleh

Difficile fugare la sensazione di déjà vu che accompagna le immagini del corpo senza vita di Ali Abdullah Saleh (nella foto), ex presidente yemenita. L’assembramento della folla, le grida di giubilo, il cadavere strattonato e il volto tumefatto: tutto riporta alla mente la fine di Muammar Gheddafi nel 2011. Due uomini di potere, Saleh e Gheddafi, che costruiscono i rispettivi regimi sulle fondamenta di complesse architetture di alleanze tribali, che perpetuano la loro ultradecennale autorità anche quando non ve ne sono più le condizioni, che finiscono tra le mani di una folla sorpresa e inferocita. Eppure, le traiettorie di eventi precedono la morte di Gheddafi e quella di Saleh non potrebbero essere più diverse.

Il colonnello libico non riesce a sopravvivere alla fine del suo regime, braccato dai raid aerei della Nato e inseguito dai ribelli che si sarebbero poi divisi in un’informe moltitudine di formazioni armate. L’ex presidente yemenita è uomo parimenti cinico ma, forse, ben più scaltro. Gravemente ferito da un attacco dinamitardo contro il palazzo presidenziale, nel 2012 Saleh strappa un accordo ai mediatori del Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg) in base al quale cede il potere al suo vice Abd Rabbih Mansur Hadi (che è tuttora il presidente yemenita riconosciuto dalla comunità internazionale) in cambio dell’immunità. E, favorito dal sostanziale disinteresse con cui l’Occidente guarda allo Yemen, trova anche un modo per continuare a giocare un ruolo di primo piano per gli equilibri di potere del paese e, a ben vedere, dell’intera regione.

Decide infatti di sostenere e d’incoraggiare la rivolta degli Houthi, una milizia armata dall’Iran ed espressione della comunità di confessione sciita-zaidita insediata lungo il confine con l’Arabia Saudita. Durante la sua presidenza, Saleh era riuscito a gestirne le rivendicazioni ricorrendo, in talune occasioni, all’uso della forza. Ora, agendo nell’ombra, capisce di poter sfruttare quelle stesse istanze per tornare a far sentire la propria voce e, allo stesso tempo, di poter far leva sulle crescenti tensioni tra Riad e Teheran per ricostruire il suo apparato di potere. Nel settembre del 2014, i ribelli Houthi prendono il controllo della capitale Sana’a grazie all’indispensabile appoggio militare della Guardia repubblicana ancora guidata da Ahmed Saleh, primogenito del deposto presidente, costringendo Hadi alla fuga.

È la miccia che fa esplodere uno dei più sanguinosi (e oscuri) conflitti degli ultimi decenni: l’Arabia Saudita interviene nel marzo successivo alla guida di un’ampia coalizione regionale, l’Iran continua a inviare armi agli insorti permettendo loro di tenere le posizioni. Lo Yemen, già tra i paesi più poveri della regione mediorientale, va in pezzi e le aspirazioni di potere di tutti gli attori in campo si sciolgono in un bagno di sangue. Sono oltre 8.670 le vittime accertate dalle Nazioni Unite. Inevitabile che l’alleanza tra Saleh e Houthi, basata su una contingente convergenza d’interessi, finisca con lo sfaldarsi sotto il peso delle bombe saudite. Il resto è storia di questi giorni: dopo una lunga serie di schermaglie, sabato l’ex presidente annuncia la rottura dell’alleanza con i ribelli e invita la comunità internazionale a “fermare la follia” che lui stesso aveva alimentato. Gli Houthi danno a Saleh del traditore. E forse quest’ultimo commette un errore di sopravvalutazione delle proprie forze – pur sempre basate su una struttura di stampo familiare – che, nonostante l’appoggio aereo della coalizione saudita, non riescono a impedire che la capitale Sana’a finisca sotto il totale controllo dei ribelli.

La morte di Saleh getta ora pesanti ombre sul futuro di un paese già disastrato. Gli Houthi si sono liberati di un alleato scomodo ma probabilmente decisivo. L’Arabia Saudita potrebbe cercare di approfittare della situazione per portare a suo favore l’inerzia del conflitto, ma occorrerà capire come la pensa il rampante e sempre più influente erede al trono Mohammed bin Salman, che non ha mai nascosto di voler porre fine il più presto possibile a una guerra che potrebbe trasformarsi in un “Vietnam dei sauditi”. Uno scenario di questo genere, d’altra parte, potrebbe spingere l’Iran ad aumentare i propri sforzi a sostegno degli Houthi: ne scaturirebbe una nuova escalation di tensione che, senza alcun dubbio, avrebbe ripercussioni su ogni angolo del Medio Oriente.

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