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Ecco come il Russiagate ha avuto inizio

russiagate, FBI

Non sarebbe stata una spia britannica a passare le informazioni sui possibili contatti tra il team di Donald Trump e Mosca da cui è scaturito il Russiagate. L’investigazione dell’FBI che tanto ha pesato sull’amministrazione americana nel corso del 2017 e che prosegue incessantemente nell’anno appena iniziato non sarebbe nata negli ambienti delle spie britanniche ma, più semplicemente, sarebbe cominciata in un bar di Londra nel maggio del 2016, molto prima di quell’otto novembre che decretò la vittoria su Hillary Clinton e inaugurò un nuovo corso per la politica americana.

Secondo quanto segnalato dal New York Times in un articolo che porta la firma di Mark Mazzetti, tutto sarebbe iniziato davanti a una pinta di birra al Kensington Wine Rooms dove George Papadopoulos, all’epoca consulente per la politica estera del comitato elettorale pro Trump si incontrò e chiacchierò con Alexander Downer, suo conoscente e funzionario presso l’ambasciata australiana di Londra.

Durante quella conversazione, del tutto informale e dai toni amicali, Papadopoulos finì con il parlare di materiale compromettente su Hillary Clinton e si fece sfuggire un’informazione che si sarebbe rivelata preziosissima su alcune email del Democratic National Committee (DNC) che avrebbero potuto mettere in seria difficoltà la campagna democratica.

Nei giorni successivi alla conversazione del Kensington Wine Rooms l’australiano avrebbe lasciato cadere i riferimenti avuti dal giovane consigliere del team di Trump, anche sulla base della scarsa considerazione verso lo stesso Papadopoulos (giudicato poco attendibile e modestamente preparato). Quando, però, iniziarono a circolare le prime indiscrezioni sulle email trafugate dallo staff democratico, Downer decise di condividere il contenuto della conversazione con l’intelligence australiana, fornendo in dettaglio qualsiasi informazione in suo possesso che potesse essere utile per meglio inquadrare la circostanza.

L’intelligence australiana in breve tempo aprì i propri canali di comunicazione con i colleghi americani e in piena ottica di information sharing passò l’alert relativo all’attività sospetta di alcuni membri del team di Donald Trump. Proprio quell’informazione sarebbe finita sulla scrivania di James Comey, all’epoca direttore dell’FBI, dando così origine al Russiagate.

Dalla ricostruzione pubblicata sul New York Times emergono alcuni elementi di grande importanza per meglio comprendere quelle vicende che sono oggi sotto la lente di Robert Mueller, procuratore speciale che indaga sul caso. Prima di tutto, l’intera vicenda non sarebbe nata da un’informazione ottenuta “de relato” ma da una fonte diretta. Tale condizione rafforzerebbe l’attendibilità delle notizie riportate, non essendo passate per più gradi di manipolazione e più fonti, come inizialmente supposto. Ancora, nella storia diviene più centrale che mai il ruolo di Papadopoulos, sul conto del quale Formiche.net ha già pubblicato un approfondimento che evidenzia le ambiguità e le difficoltà nell’inquadrare un personaggio all’apparenza marginale e poco influente, che avrebbe invece avuto un ruolo di primo piano nella rete di contatti esteri per l’organizzazione di Donald Trump. Si è, ad esempio, recentemente scoperto che proprio Papadopoulos avrebbe contribuito ad organizzare un incontro presso la Trump Tower con ʿAbd al-Fattāḥ al-Sīsī, presidente dell’Egitto, e sarebbe stato presente agli incontri con altri leader stranieri. Il giovane consulente non sarebbe stato, dunque, un “coffee boy”, come frettolosamente e grossolanamente dichiarato dal team di Donald Trump.

Da questo riferimento si può poi dedurre una ulteriore importante informazione di contesto: è ormai risaputo che Papadopoulos non avesse un curriculum all’altezza del suo ruolo e delle sue ambizioni. Per capire perché fosse riuscito ad assumere una posizione così sensibile in campagna elettorale è utile richiamare una suggestione posta dallo stesso NYTimes, secondo cui i danni causati dal Russiagate sarebbero in parte attribuibili agli stessi uomini di Trump, che non sono stati in grado di selezionare e vagliare con cura i collaboratori che hanno partecipato alla corsa verso la presidenza. Un handicap quest’ultimo che potrebbe essere espressione della scarsa attenzione e sensibilità politica da parte dell’outsider poi divenuto presidente degli Stati Uniti.

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