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La mossa di Virginia Raggi e l’enigma irrisolto del Movimento 5 stelle

Alla fine Virginia Raggi tenta la mossa del cavallo. Che non è la sua iscrizione al nuovo partito di Giulietto Chiesa e di Antonio Ingroia, ma “una iniziativa abile e inattesa, che permette di liberarsi da un impedimento o di uscire da una situazione critica”. Voce del dizionario Zanichelli 2007. Di fronte all’ipotesi di rinvio a giudizio per falso ideologico, ha contrapposto la richiesta di un “giudizio immediato”, nell’affair che l’ha coinvolta con Raffaele Marra, il cui fratello Renato è stato indebitamente promosso ai vertici del Comune di Roma. Se accolta, le consentirà di evitare qualsiasi udienza durante la campagna elettorale e rinviare il tutto a babbo morto. Quando, chiuse le urne, si vedrà se quel piccolo gioco di prestigio ha dato i frutti sperati. Se i 5 stelle avranno vinto, la questione, con ogni probabilità, sarà derubricata. Se avranno perso, il piccolo stratagemma non avrà funzionato, ma con un costo aggiuntivo minimo per l’intera partita. Nel conto del “dare” e dell'”avere”, un risultato tutt’altro che disprezzabile.

Tutto bene quindi, se non vi fossero degli effetti collaterali. Il caso Virginia Raggi è solo un incidente della storia o la spia luminosa di qualcosa di più profondo? L’interrogativo è legittimo, considerando le difficoltà di un’altra donna simbolo del movimento. La sindaca di Torino Chiara Appendino è incappata in qualcosa di simile, dato lo stretto rapporto intrattenuto con il suo Capo di gabinetto, Paolo Giordana, poi costretto alle dimissioni per aver sollecitato la cancellazione di una multa a carico di un suo amico. La logica, a ben vedere, è la stessa: una rapporto strettissimo, quasi simbiotico. Nemmeno si fosse trattato di due Raspuntin – il consigliere molto privato dello Zar Nicola II di Russia – in grado di condizionare le decisioni del vertice. Come è potuto accadere? Solo ingenuità o l’inevitabile conseguenza di contraddizioni più profonde?

L’interrogativo ha un corposo antecedente ed, al tempo stesso, un inquietante futuro. Nelle vicende romane, il rapporto tra politici e tecnici si è risolto in un totale disastro. Licenziamento di Carla Raineri da Capo di gabinetto del Comune, per non essersi piegata al volere del cerchio magico. Trattandosi di un magistrato di valore, quella pretesa era semplicemente assurda. Quindi dimissioni di Marcello Minenna da assessore al bilancio: alto dirigente Consob, bocconiano, master alla Columbia University di New York. Alla testa di una lunga processione – ricordiamo solo Andrea Mazzillo – fino al trasferimento da Livorno di Gianni Lemmetti. Un curriculum professionale di altro tipo. Quindi la presenza fugace di Massimo Colomban, alle partecipate. Voluto direttamente dai vertici della Casaleggio Associati. Un anno vissuto pericolosamente che si è chiuso con la richiesta di 1 miliardo – meglio se sono 2 – per far funzionare Atac e Ama. E risparmiamo la sequela delle altre dimissioni sia degli assessori sia degli alti dirigenti delle municipalizzate. Una vera e propria moria che qualcuno dovrebbe spiegare.

Che al fondo ci sia qualcosa che non funziona è abbastanza evidente. I vertici del movimento, ed in particolare Luigi Di Maio, ne sono consapevoli? La scelta compiuta, in vista delle prossime elezioni, è stata quella di cercare possibili aspiranti, sfogliando l’elenco del telefono. Seppure in formato elettronico. Non è forse questo il significato più autentico delle cosiddette “parlamentarie”? Quell’assalto al web che ha fatto registrare le richieste più strampalate, fino a mandare in tilt – tra proteste e minacce di ricorso alle vie legali – l’intero sistema. C’è quindi più di un motivo di riflessione, che in qualche modo, riflette, anche in questo caso, le vicende romane. Non bisogna dimenticare che Virginia Raggi era stata consigliera comunale, al tempo di Marino sindaco. Ci si aspettava quindi una qualche conoscenza della città per la quale si candidava alla guida. Almeno uno straccio di programma, cui dare attuazione, invece del solito ritornello “stiamo lavorando”.

La stessa cosa si verifica a livello nazionale. Che cosa ha costruito il Movimento 5stelle in questa legislatura, in termini di rapporti organici con quella parte della società italiana che intende rappresentare? Ben poco se è costretto a ricorrere alla rete per la scelta dei candidati da inserire nelle liste elettorali. Luigi di Maio si riserva, in proposito, l’ultima parola. Con quale criterio? La competenza? Una sorta d’esame universitario? La sensibilità politica? Ma in questo caso non esistono, in commercio, libri di testo. È il dramma del “partito non partito” che fa il paio dello “statuto-non statuto”. Invenzioni verbali che, come abbiamo visto, lasciano il tempo che trovano. Con il solito vezzo italiano, secondo il quale le regole si applicano ai nemici e si interpretano per gli amici. Come insegnava il buon Giolitti nella vecchia Italietta.

Finora il Movimento ha goduto di una “rendita di posizione”: derivante dalle contraddizioni non risolte della società italiana. Ma la loro proposta politica rappresenta un puro salto nel buio. Lo certifica non solo l’inesistenza di qualsiasi proposta programmatica, degna di questo nome. Una su tutte: il referendum sull’euro. Ma quel tipo d’organizzazione messa in piedi: in cui uno varrà, pure, uno. Ma alla fine il bastone vero del comando resta nella mani di un soggetto indecifrabile. Che in cinque anni non è riuscito a riunire intorno a sé un vero gruppo dirigente, cui delegare le necessarie funzioni. Né a costruire quei canali di comunicazione tra la società italiana e la politica per garantire ai “cittadini” il “diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con il metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Un monito (l’articolo 49) che, a 70 anni dalla nostra Costituzione, dovrebbe essere ricordato.

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