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Una campagna elettorale normale? Speriamo sia la volta buona

Se c’è un dato positivo, valido per tutte le forze politiche, in questa fase iniziale di campagna elettorale, è sicuramente quello della presenza di forti identità. Si tratta probabilmente di un merito oggettivo prodotto dalla legge elettorale, la quale, come si sa, prevede una quota maggioritaria su una base proporzionale, spingendo così tutti i partiti ad alleanze competitive, senza perdere, nondimeno, le rispettive determinazioni specifiche.

Il centrodestra pare aver trovato la quadra: una condivisione d’intenti che non annulla le divergenze tra Matteo Salvini e Silvio Berlusconi, ma che è sufficiente per superare i molti balzelli che si sono presentati già all’orizzonte con il caso Maroni o con le controversie sulla Legge Fornero.

Sul fronte del centrosinistra invece le medesime condizioni stanno definendo una chiara incompatibilità altrettanto positiva tra Liberi ed Uguali e il Pd. La presentazione ieri in Lombardia di un candidato della sinistra opposto al Pd è palesemente una pietra tombale sull’alleanza di coalizione, ma, al contempo, è anche un principio di trasparenza per gli elettori progressisti che non si troveranno così ad avere un’unione elettorale eterogenea che scoppierebbe subito dopo le elezioni.

Questa, a mio avviso, è la sostanza dell’errore passatista della disperata proposta unitaria di Romano Prodi e Walter Veltroni: non si sta insieme a tutti i costi per battere l’odiato avversario, come la sinistra ha fatto mille volte, ma si vince insieme se si può stare insieme, malgrado tutto, con un progetto condiviso autenticamente.

Pertanto è del tutto logico che nessuno dei tre poli sia favorevole a priori a ipotesi di larghe intese: non lo è Berlusconi, che lo ha ripetuto più volte; non lo è Matteo Renzi, che giudica perfino ridicola la cosa; e non lo è, a maggior ragione, Salvini. Certo, rimane aperta la questione di possibili alleanze dopo il voto.

Conviene però in merito distinguere nettamente i due tipi di ragionamento. La politica democratica vive di contrapposizioni paradigmatiche concorrenziali. Il sistema è tanto più funzionale quanto più chi gareggia non fa accordi sottobanco di tipo consociativo già all’inizio. Ciò sarebbe infatti deleterio, come lo è stato in passato mille volte. Ciascun leader, all’opposto, espone le proprie tesi, i propri progetti, le proprie idee, senza giochi nascosti: e i cittadini elettori poi scelgono liberamente chi ritengono migliore. Punto.

Perciò è poco comprensibile la reazione d’entusiasmo espressa dal Foglio per il governo multicolore in Germania. Non si tratta per Berlino di un toccasana auspicabile, ma di una necessità responsabile. Cosa evidentemente molto diversa, anzi perfino opposta. I governi dovrebbero avere chiare maggioranze, ed è importante che i competitori lottino tra di loro per perseguire questo fine con passione e fermezza, sebbene, talvolta, questo obiettivo venga a mancare. Avere chiare maggioranze è importante oltretutto perché vuol dire avere altrettanto funzionali opposizioni, con controlli severi sull’operato dell’esecutivo.

Se viceversa vi fosse dopo il 4 marzo una situazione di impossibilità numerica da parte di uno dei tre poli ad avere il controllo del Parlamento, lo sforzo allora, questa volta sì, dovrebbe essere indirizzato, con altrettanta lucida determinazione, a trovare accordi più ampi. Sarebbe infatti giusto, in quel caso, che le forze politiche si facessero carico di dare un credibile governo al Paese, anche sopra mille difficoltà e interessi, esattamente come è avvenuto in Germania, Spagna e Belgio.

Un sistema democratico parlamentare, in definitiva, prospera quando regna la separazione cosciente tra la lotta agonale dei soggetti politici in lizza e l’obbligo morale e istituzionale di tutti a dover dare, comunque sia, un governo nazionale alla Repubblica.

Oggi vi sono, fortunatamente, tre fatti positivi che fanno ben sperare, nell’avvio di questa campagna elettorale: una separazione forte tra centrodestra, Pd, sinistra e M5S; la possibilità concreta che almeno uno dei tre poli possa giungere ad una maggioranza assoluta; e, in ultimo, la garanzia di un presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il quale, senza pregiudiziali ideologiche e con grande senso della misura e del ruolo istituzionale, lavorerà per dare al Paese un governo con o senza il ricorso alle larghe intese.

Non è mai detta l’ultima parola, ma forse stiamo diventando finalmente un Paese normale. E questa è davvero una buona notizia.

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