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Cinquant’anni dopo, che fine ha fatto il ‘68?

Di Silvia Casilio

-Il ‘68 è morto! Viva il ‘68: così Marco Boato intitolò una raccolta di scritti pubblicata nel 1978 in occasione del primo decennale dell’editore Bertani di Verona. A quarant’anni di distanza da quella pubblicazione, il titolo autoironico (egli partecipò alla contestazione e fu personaggio di spicco del Sessantotto a Trento) e dissacrante scelto da Boato è azzeccatissimo.

Il ‘68 è morto. Su questo non ci sono dubbi: Pancho Pardi già nel 2008 scriveva che il ‘68 per i giovani di oggi è attuale “come lo sbarco dei Mille”. Ed è vero: le nuove generazioni, soprattutto gli adolescenti che affollano i banchi delle nostre scuole, non sanno niente o quasi di ciò che è accaduto in questo Paese e nel mondo durante “la cosa Sessantotto” e cioè, per dirla con Guido Viale, durante quel “complesso movimento della storia che abbraccia alcuni anni” e che rappresentò, per alcuni versi, il punto più alto “di una inedita rivoluzione culturale” che non può essere ridotta solo ed esclusivamente alla breve stagione delle occupazioni studentesche, né tanto meno può essere costretta negli angusti recinti di analisi celebrative o, peggio, venate da una punta di nostalgia in virtù del “come eravamo”. Se qualcosa di quel periodo è rimasto tra i giovani è la lettura riduttiva di un ‘68 circoscritto alla modernizzazione dei costumi e della cultura, esaltata da alcuni come l’inizio del cambiamento e criticata se non contestata da altri che lo vedono come la causa della crisi valoriale e sociale attuale.

Sulla lapide del ‘68 c’è la spettacolarità delle azioni e degli avvenimenti. Per dirla parafrasando Guy Debord, c’è lo spettacolo della contestazione: “se avete i capelli lunghi”, hanno scritto Jacopo Fo e Sergio Parini nel 1997 (ancora la vigilia di un altro anniversario) “andate a lavorare in jeans o senza cravatta […] se siete vegetariani, fate yoga o comicoterapia, […] dovete ringraziare il ‘68! (sic!)”.

Ma viva il ‘68 perché, nonostante cosa ne dicano i suoi detrattori di destra o di sinistra, esso non è all’origine di tutti i mali che affliggono la contemporaneità, ma fu sintomo e agente dei profondi mutamenti che si registrarono a livello planetario in quel periodo e che modificarono profondamente la società, la cultura e la politica. Sia la retorica (soprattutto di sinistra) che vorrebbe confezionare un ‘68 astorico, utopico e creativo completamente slegato da qualsiasi dinamica di relazione con gli altri attori sociali che vissero quel periodo, sia la lettura (figlia in particolare di un certo revisionismo di destra) che attribuisce alla generazione del ‘68 la responsabilità di aver creato il mito dell’eterno giovanilismo e di aver tarpato le ali alle generazioni successive, risultano entrambe poco credibili se non addirittura false da un punto di vista storiografico.

Qual è l’auspicio quindi per questo anniversario entrante?

Che il ‘68 possa spegnere le sue 50 candeline forte del superamento di attitudini nostalgiche o acrimoniose, sicuro che siano state archiviate visioni autoreferenziali animate da un desiderio di “chiusura di conti” o di denuncia in favore di un dibattito svincolato da preconcetti e da ipoteche. L’augurio è che infine, il lento cambio generazionale, che fortunatamente si registra anche nella comunità italiana di storici e storiche, renda possibile un necessario spostamento dell’attenzione dall’evento ‘68 ai più lenti processi che precedettero e seguirono la breve stagione delle occupazioni studentesche, affrontando quel nodo storiografico partendo dallo studio delle vicende che segnarono la storia del movimento e degli altri soggetti che, insieme agli studenti, furono protagonisti delle proteste sociali e politiche di quegli anni.

 

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