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Cosa sta succedendo in Iran e perché le proteste non si fermeranno. Lo spiega Ahmad Rafat

Iran

Dopo diversi giorni di manifestazioni contro il governo di Hassan Rouhani, in Iran il bilancio dei morti e degli arrestati lascia pensare che non si tratti di semplici proteste per il carovita: centinaia le persone finite in carcere, decine, ad oggi, quelle che hanno perso la vita. Nei giorni scorsi il ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif ha dichiarato che il governo non permetterà “agli infiltrati di sabotare i diritti degli iraniani con la violenza e la distruzione”. Nel frattempo il presidente americano Donald Trump, che quattro giorni fa twittava “Il mondo sta guardando”, ora si limita a scrivere: “Gli Stati Uniti stanno guardando”. Un particolare non indifferente, segno che la linea dura della Casa Bianca contro Teheran non ha ricevuto il sostegno auspicato. Questa è anche la lettura di Ahmad Rafat, attivista per i diritti umani e giornalista iraniano con una lunga carriera ad Adnkronos International, di cui è stato vice-direttore, da sempre fine conoscitore dell’Iran. “Trump ha cambiato frase perché “il mondo” non si è fatto sentire” spiega a Formiche.net, per poi puntare il dito sull’Ue: “Dov’è la signora Mogherini? Assente”.

Ahmad Rafat, in Iran i manifestanti protestano solo per il carovita, o c’è altro?

Sicuramente le manifestazioni sono iniziate per il carovita. Non dimentichiamo però che sono nate a Mashad, la più santa delle città iraniane, dove il governo non ha potere, sono i religiosi a governare, tanto che è considerata alla stregua di una repubblica autonoma. Presto gli slogan contro il carovita si sono trasformati in “morte a Rouhani”, e “morte al dittatore”, quest’ultimo riferito a Khamenei.

Le centinaia di persone arrestate rischiano la pena di morte?

Per il reato di Muharebeh, letteralmente “guerra contro Dio”, è prevista la pena capitale, ma non credo che un manifestante sarà condannato a morte. Un simile gesto annullerebbe qualsiasi possibilità di ricucire all’interno e il governo di Rouhani non potrebbe giustificarsi in alcun modo con i Paesi europei. Grazie alle pressioni europee Teheran ha modificato tre mesi fa la legge sulla pena capitale per i trafficanti di droga, riducendo le condanne del 70%.

Dietro alle manifestazioni nel nord del Paese ci sono i conservatori? Nella regione di Mashad, ad esempio, è rimasto un solido consenso verso l’ex presidente Mahmud Ahmadinejad.

Questa è una teoria dei sostenitori di Rouhani per screditare le proteste. L’altro giorno si sono tenute manifestazioni in 74 città in ogni parte del Paese, comprese le città dei curdi, che hanno sempre votato riformista, e il Belucistan, dove alle ultime elezioni Rouhani ha ottenuto l’80% dei voti. Non c’è nessun partito o leader politico a coordinare le manifestazioni. Ahmadinejad non ha mai avuto un sostegno così trasversale in 74 città. Gli slogan di questi giorni sono a favore della dinastia Pahlavi da un lato, dall’altro a favore della repubblica.

Dunque non sono in alcun modo assimilabili ai sommovimenti che seguirono le elezioni del 2009?

Non si può fare alcun parallelismo per tre motivi. Prima di tutto il movimento del 2009 ha riguardato tre, quattro grandi città, è partito da Teheran e ha raggiunto centri come Yazd, Shiraz, Mashad. Questa manifestazione è partita lontano dalla capitale, e ha un’estensione geografica molto maggiore. Secondo, nel 2009 né i curdi, né i turchi, né altre minoranze etniche iraniane hanno preso parte alle proteste. Questa volta invece tutti i partiti di questi gruppi etnici hanno immediatamente emesso comunicati di supporto e hanno mobilitato la loro struttura nel Paese. Terzo, nel 2009 fu la media borghesia a scendere in piazza, oggi sono operai o studenti disoccupati, persone che hanno molto meno da perdere e quindi mostrano più resistenza. Ci sono anche personaggi molto famosi in Iran che stanno supportando le proteste.

Ad esempio?

Il regista Jafar Panahi, che è stato condannato a venti anni di carcere, ora è rinchiuso a casa e continua a girare film illegalmente. Martedì ha chiesto pubblicamente ai pasdaran di indire un referendum popolare per capire se il popolo li vuole ancora o meno. Con un voto sottoposto al controllo dell’Onu si potrà testare, dice Panahi, se davvero il dissenso contro la repubblica islamica proviene solo da una minoranza.

Cosa è cambiato nelle rivendicazioni rispetto alle proteste del 2009?

Otto anni fa i manifestanti chiedevano “Dov’è il mio diritto di voto?”, oggi chiedono “Dov’è il pane, dove il mio lavoro?”. Una risposta cui oggi il governo iraniano, in un Paese con il 47% della popolazione sotto la soglia di povertà e una disoccupazione al 22,5%, non è capace a rispondere.

I manifestanti protestano anche contro un sistema di corruzione che affligge il governo di Teheran.

Contro la corruzione e un sistema bancario piramidale, non dissimile da quello creatosi in Albania alcuni anni fa. I corrotti sono sia fra i conservatori che fra i riformisti, lo stesso fratello di Rouhani è stato arrestato per corruzione e poi rilasciato su cauzione. I Pasdaran controllano direttamente o indirettamente il 40% dell’economia del Paese, hanno banche di loro proprietà. Ma gli iraniani protestano anche per la disoccupazione. Haft Tappeh, la più grande azienda zuccheriera dell’Iran, non paga i salari da più di cinque mesi.

L’accordo sul nucleare del 2015 (Jcpoa) non ha avuto effetti benefici sull’economia iraniana?

Sia il governo di Ahmadinejhad che quello di Rouhani hanno ripetuto per anni che le sanzioni estere sono la ragione di tutti i mali dell’Iran. Sono passati due anni dalla firma dell’accordo sul nucleare e il ritiro delle sanzioni, e l’economia iraniana non si è mossa di una virgola. Le sanzioni erano solo un’aggravante, in Iran i problemi dell’economia sono strutturali: la corruzione, la presenza dei pasdaran e delle fondazioni religiose, l’assenza di strutture adeguate, e soprattutto del capitale straniero.

Il Jcpoa non ha attratto nuovi investimenti esteri?

All’accordo sul nucleare non è seguito un aumento degli investimenti. Perché il capitale straniero ha bisogno di una stabilità politica che in Iran non esiste. In Iran gran parte delle imprese straniere sono costrette a trovarsi un partner iraniano, quasi sempre una società legata ai pasdaran. C’è stata poi l’aggravante Trump: appena il presidente americano ha aperto bocca contro l’Iran, la francese Total ha sospeso l’accordo che aveva firmato, perché gli interessi delle grandi imprese europee negli Stati Uniti valgono molto di più del mercato iraniano.

Tra i vari slogan scanditi durante le manifestazioni di questi giorni, le piazze hanno gridato “Lasciate la Siria, pensate all’Iran”. C’è fra gli iraniani la richiesta di una politica dell’Iran first?

Sicuramente. Intervenendo in Siria, in Libano, in Iraq e nello Yemen l’Iran si è inimicato tutti i paesi arabi della regione. È il caso degli Emirati Arabi Uniti, uno dei principali partners iraniani durante il periodo delle sanzioni. Dalla firma dell’accordo sul nucleare il governo di Teheran ha speso tutto il surplus ricavato dalla vendita del petrolio in queste “avventure” oltreconfine dei pasdaran. Chi lavorava con questi Paesi ora si ritrova disoccupato. Il popolo iraniano non ha mai avuto uno spirito guerrafondaio, per questo non capisce. Lunedì un giovane soldato in uniforme ha dichiarato: “Sono entrato nell’esercito credendo di difendere le frontiere dai nemici, e invece sono costretto ad andare all’estero o a sparare sulla folla”.

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