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Così la Cina calpesta diritti civili: il caso Gui Minhai e l’afonia dell’Europa

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La portavoce del dipartimento di Stato americano, Heather Nauert, ha detto che Washington è profondamente preoccupata per la detenzione di Gui Minhai, 53enne titolare di una casa editrice con sede a Hong Kong, specializzata in libri (critici) sulla leadership cinese.

Gui era stato già arrestato negli scorsi anni, poi il 20 gennaio è stato preso un’altra volta mentre prendeva un treno per Pechino con due diplomatici svedesi. La sua attuale ubicazione è un mistero e il ministero degli Esteri cinese questa settimana ha respinto le richieste di spiegare la sua detenzione.

Agenti cinesi sono già stati sospettati di averlo rapito dalla sua casa per le vacanze in Thailandia nell’ottobre 2015 durante una retata che coinvolse altri quattro editori — ci era finito in mezzo anche un libraio con la doppia cittadinanza britannica — le cui sorti erano state misteriose per diverso tempo. Gui, che è nato in Cina ma è anche cittadino svedese dal 1992, è successivamente riemerso in Cina, dove era trattenuto in semi libertà nella città orientale di Ningbo (fece sapere che fu praticamente costretto a una confessione forzata in cui si auto accusava pubblicamente di un omicidio colposo successo un decennio prima, definito il motivo della sua detenzione). Lo scorso autunno Gui sembrava vicino al rilascio definitivo, anche se probabilmente avrebbe continuato a vivere sotto sorveglianza.

Poi l’arresto della scorsa settimana. Gui si stava recando all’ambasciata svedese nella capitale cinese per sottoporsi a una visita medica, dato che da qualche tempo mostra i primi sintomi della Sla. Sua figlia ha dichiarato a Radio Sweden che a prenderlo sono stati una decina di agenti in borghese, che lo avrebbero portato — almeno inizialmente — in un compound segreto usato dalla polizia.

La portavoce del dipartimento di stato, ha detto: “Chiediamo alle autorità cinesi di spiegare le ragioni e le basi legali dell’arresto e della detenzione di Gui, di rivelare dove si trova e di permettergli libertà di movimento e libertà di lasciare la Cina”.

La vicenda si potrebbe definire uno degli argomenti diventati classici negli ultimi due anni con cui viene sottolineata la mancanza di diritti civili in Cina, enorme incoerenza rispetto allo sviluppo economico e alla crescente ambizione globale del presidente Xi Jinping (sullo stesso genere, per esempio: Xi lo scorso anno fu il protagonista affascinante del forum globalista di Davos, ma Pechino impedisce investimenti esteri in 63 dei propri settori industriali).

Pechino ovviamente ha sempre cercato di minimizzare sul trattamento di Gui, e anzi ha costruito una contro retorica, facendo passare sui media propagandistici l’intera vicenda come una cospirazione mediatica occidentale creata ad hoc per minare il sistema politico monopartitico della Cina. “La polizia non è obbligata […] a compiacere i media occidentali” ha scritto in questi giorni Hu Xijin, direttore del Global Times, tabloid in inglese del partito comunista.

Anche la Svezia, attraverso la ministro degli Esteri Margot Wallström, aveva dichiarato di “essere a conoscenza nel dettaglio” della situazione e che il governo svedese “sta lavorando incessantemente” sulla questione.

La denuncia pubblica americana è il terzo messaggio severo inviato alla Cina negli ultimi giorni. Prima l’amministrazione Trump aveva alzato dazi sull’importazione di celle per il fotovoltaico e sulle lavatrici, poi il capo del Pentagono era stato protagonista di un tour programmatico tra gli alleati statunitensi che hanno con la Cina un contenzioso aperto sulle dispute territoriali nel Mar Cinese Meridionale, ora il richiamo su Gui. Washington ha toccato a stretto giro il commercio e l’economia, la militarizzazione, i diritti umani: aspetti controversi di Pechino, asset centrali su cui gli americani cercano di far emergere le incoerenze cinesi per combattere la globalizzazione del Dragone.

 

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