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Magie e contraddizioni elettorali su flat tax e pensioni. La versione di Cazzola

cazzola

Ad ogni elezione emerge la manfrina del “voto utile”. A pensarci bene si tratta di una seconda scelta: chi la compie, lo fa non tanto per favorire quella forza politica che ritiene migliore, ma si sente costretto a scegliere quella che gli sembra il “minore dei mali”. Durante la prima Repubblica la maggioranza degli italiani votava la Dc “turandosi il naso” (così li esortava un famoso giornalista un po’ sopravvalutato). Poi, nella seconda, il bipolarismo consentiva scelte più nette, ma all’interno degli schieramenti a confronto c’era sempre qualche cosa che lasciava l’amaro in bocca, qualche compagno di viaggio scomodo.

Questa campagna elettorale è molto deludente per i toni, l’illusionismo dei programmi, le menzogne contenute nelle proposte che denotano prevalentemente un disprezzo di fondo per l’intelligenza degli italiani.

Se si dovessero seguire le tracce del voto utile, occorrerebbe, innanzi tutto, individuare, prima ancora che l’amico da sostenere, il nemico da battere. Per quanti – al pari di chi scrive – considerano deleteria un’affermazione del M5S, il voto utile – a stare ai sondaggi – dovrebbe andare alla coalizione di centrodestra, la sola che ha la possibilità di contrastare la “resistibile ascesa” dei grillini. A parte le clamorose topiche nelle interviste televisive – messe in bella mostra da “Striscia la notizia” – l’anziano ex Cav sembra resuscitato a nuova vita. A pensarci bene gli è riuscito il colpo del 1994 quando mise insieme due coalizioni differenti: una al Nord, l’altra al Sud; una con Bossi, l’altra con Fini.

Nella competizione elettorale in corso ha fatto di più non solo sul terreno delle alleanze, ma anche su quello dei programmi: è stato capace di mescolare l’acqua con l’olio, nel contesto di un documento programmatico, composto di titoli e di frasi in cui la seconda parte contraddice la prima. Prendiamo l’esempio delle pensioni, un tema centrale nella campagna elettorale. “Azzeramento della legge Fornero e nuova riforma previdenziale economicamente e socialmente sostenibile”. Così sta scritto, come se una nuova riforma con quelle caratteristiche di sostenibilità non dovesse misurarsi con i medesimi aspetti (a partire dall’età pensionabile) azzerati insieme con le norme del 2011.

In più, Berlusconi ha un vantaggio: nessuno gli chiede conto dell’incoerenza tra ciò che scrive e ciò che dice, come se gli fosse riconosciuto il diritto di mentire o quanto meno di dissimulare. Se non fosse così, Juncker, tenendo conto del programma del centrodestra, avrebbe dovuto metterlo alla porta, anziché incontrarlo. Ma Silvio è stato capace di schierarsi con grande e lucida determinazione contro il M5S, inseguendolo tuttavia sul terreno della demagogia e del populismo, in pratica adottandone l’agenda. In sostanza, a Bruxelles gli hanno concesso le attenuanti generiche, confidando nella conclamata garanzia di aver messo Matteo Salvini in condizione di non nuocere, sia pure con artifici tenuti insieme da pecette.

Gli hanno perdonato persino la flat tax – la proposta al centro del programma del centrodestra – a proposito della quale ha ragione Pier Carlo Padoan quando sostiene che le regole della contabilità non consentono di ridurre le entrate tributarie basandosi sugli auspici (pagare meno, così nessuno è più costretto ad evadere), in mancanza di precise coperture di cui non vi è la disponibilità.

Ecco perché chi guarda ai contenuti e soprattutto ad un rapporto positivo con l’Unione europea finisce per apprezzare di più il programma del Pd e dei suoi alleati, soprattutto dopo la bella intervista di Paolo Gentiloni al Foglio e la svolta europeista compiuta dal partito negli ultimi giorni. Certo, la scelta macroniana è tardiva e giunge dopo anni di sciocche polemiche renziane contro l’Europa burocratica, matrigna, fissata con l’austerità e quant’altro ha finito per emarginare il nostro Paese, almeno fino a quando il premier Gentiloni non ha cambiato stile e linea di condotta rispetto a quella sterilmente arrogante del suo predecessore.

In sostanza, con la discesa in campo del presidente del Consiglio, il Pd e i suoi alleati (è un bene che la sinistra-sinistra se ne sia andate per i fatti suoi) occupano, nel dibattito elettorale, uno spazio vuoto: la salvaguardia della prospettiva europea. Difendono le riforme fatte nella legislatura (il jobs act) e nelle precedenti (la riforma Fornero). Rifiutano – sia pure tardivamente – si scimmiottare l’agenda dei pentastellati. Se, nelle prossime settimane, questa nuova linea prenderà forza e diventerà credibile (il che non può essere garantito da Matteo Renzi, ma da Paolo Gentiloni), in questa sciagurata compagna elettore emergerà un’alternativa che potrebbe indurre gli italiani a misurarsi con il futuro.

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