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Cosa andiamo a fare in Niger e perché? L’analisi di Michela Mercuri

Di Michela Mercuri
niger

Verrà votata oggi la “discussa” missione italiana in Niger, approvata lo scorso dicembre dal governo a legislatura conclusa. Da quanto fin qui dichiarato dal ministro della Difesa Roberta Pinotti, l’impegno italiano prevede il coinvolgimento di un primo contingente di 120 militari, che potrebbero arrivare a 470 nel corso dell’anno e – seppure le regole di ingaggio non siano ancora state chiarite del tutto –  consisterà nell’addestramento delle forze locali per il controllo dei confini del Paese. A parole, dunque, non si tratterebbe di una missione combat ma, per dirla nel gergo tecnico, di “Security Force Assistance”.

Chiarito, brevemente, il contenuto della missione, è utile esaminare i temi di maggiore dibattito tra le varie forze politiche: l’opportunità, i rischi e il ruolo dell’Italia.

Iniziamo dal primo punto: ha senso schierare un contingente in Niger? Per rispondere alla domanda dobbiamo allargare lo sguardo al di là dei confini del Paese. L’intervento, infatti, rientra nella strategia di controllo dei flussi migratori che dalla Libia arrivano in Italia. Il Niger è il Paese da cui transitano la maggior parte dei migranti diretti sulle coste libiche (e da qui in Italia). Il Governo italiano, nella più totale assenza di un supporto europeo, ha messo in piedi, nell’anno appena concluso, un “piano d’azione” ben preciso: addestrare la guardia costiera libica, sostenere accordi con alcune tribù del Fezzan e fornire aiuti economici al presidente del Niger per il controllo delle frontiere e la creazione di centri di accoglienza. L’idea, evidentemente, era quella di fermare i migranti quanto più possibile vicino ai luoghi di partenza per evitare che potessero arrivare sulle coste libiche. Ora, se è vero che le cose non sono andate come sperato – tanto che alla fine ci siamo trovati a fare accordi con le milizie che gestivano i traffici – va detto che il Niger, anche a fronte dell’attuale instabilità libica e delle evidenti difficoltà di operare in questo terreno, è un tassello importante della strategia italiana. Per questo la nostra presenza nel Paese, con un’azione ben strutturata, potrebbe rivelarsi utile. Ciò non deve distoglierci, però, dal nostro obiettivo primario: tentare di stabilizzare la Libia, che è il fulcro del problema e questione prioritaria per l’interesse nazionale italiano

Veniamo al secondo punto. Cosa rischiamo? Quella in Niger, si è detto, non sarà una missione combat ma il Paese è ad alto rischio. Qui i traffici illeciti sono gestiti sovente da organizzazioni jihadiste. Operare in un terreno del genere, anche solo con scopi di addestramento, non esclude aprioristicamente azioni di combattimento. Inoltre, è plausibile ipotizzare che la presenza di nuovi occidentali rischi di fomentare attacchi terroristici. Di questo bisogna essere consapevoli, specie in un Paese con una opinione pubblica estremamente sensibile al tema dell’invio di contingenti all’estero. Possibili “incidenti” potrebbero avere ripercussioni interne di cui bisognerà tenere conto.

Infine, l’ultima spinosa questione: quale ruolo potremmo realmente avere? Il problema è stato più volte sollevato in conseguenza del fatto che l’area è storicamente presidiata dai francesi. D’altra parte, le ex colonie regalano all’Eliseo il 40% del Pil nazionale. Il franco Cfa, imposto a 14 Stati africani ha ancora un valore immenso per Parigi. Non è un caso che l’intervento militare in Libia, secondo molti, sia stato voluto da Sarkozy perché Gheddafi minacciava di sostituire questa valuta con una moneta panafricana. Parigi, poi, è presente da più di quattro anni nel Sahel, con circa di 4mila uomini, con l’operazione Barkhane. L’obiettivo dichiarato è quello di combattere gli jihadisti ma, a ben guardare, gli interessi sono ben altri, basti pensare che la Francia importa dal Niger il 40% dell’uranio che utilizza per i suoi reattori nucleari. E’ evidente che Macron intende mantenere il comando delle attività. Tuttavia anche la Francia ha i suoi problemi. I sentimenti antifrancesi nelle colonie sono ormai incontenibili. Sia i governi che le popolazioni invocano l’indipendenza economica, a tutto detrimento degli intessi economici d’oltralpe, quelli della Total in primis. Non è un caso se proprio l’attivissimo Macron abbia intrapreso di recente un tour africano al grido di “superiamo la Françafrique per una nuova vision nei rapporti bilaterali”. Insomma, non è tutto oro quel che luccica. Forse anche per questo il presidente francese è recentemente volato a Roma da Gentiloni abbracciando l’idea di una partnership maggiormente integrata e lodando lo sforzo italiano in Niger? Voglia di rinsaldare la partnership europea o, più probabilmente, opportunismo “alla francese”? A voler essere un po’ opportunisti anche noi potremmo cogliere la palla al balzo per avere finalmente una voce in capitolo, non solo sulla questione migranti ma anche, con un po’ più di convinzione, nel Mediterraneo che tanto ci riguarda da vicino.

 

 

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