Skip to main content

DISPONIBILI GLI ULTIMI NUMERI DELLE NOSTRE RIVISTE.

 

ultima rivista formiche
ultima rivista airpress

La Cina pronta a crescere in Pakistan per rimpiazzare Washington. Ecco le ultime mosse

“Ci sono circa due miliardi di dollari di attrezzature e supporto finanziario per la coalizione con il Pakistan che sono in gioco” ha detto venerdì un anonimo funzionario dell’amministrazione americana all’AFP, spiegando che con Islamabad “tutte le opzioni sono sul tavolo”. È l’onda lunga del tweet con cui il presidente Donald Trump ha accusato il governo pakistano di tenere un atteggiamento ambiguo nei confronti della lotta al terrorismo che i due paesi stanno conducendo contro i talebani locali e al Qaeda (entrambi collegati con le fazioni afghane). L’attacco era stato subito ripreso a stretto giro dall’ambasciatrice all’Onu Nikki Haley, che come successo già altre volte s’era fatta voce della geopolitica dei dollari made in Trump, ossia quel modo di trattare gli affari internazionali con l’approccio basico da businessman che caratterizza l’attuale inquilino della Casa Bianca; tagliando con l’accetta: se vi aiutiamo, voi dovete fare quello che diciamo noi. Già ad agosto Washington aveva bloccato 255 milioni di aiuti. Giovedì, intanto, il dipartimento di Stato americano ha anche incluso il Pakistan nella “Lista di controllo speciale”, una catalogo di paesi che non riescono a tutelare i diritti delle minoranze religiose.

Il funzionario che ha parlato ieri (sia con le agenzie, sia con i media) ha fatto anche sapere che in ballo c’è un riequilibrio profondo dei rapporti col Pakistan – che a questo punto sarebbe il primo paese a pagare direttamente li visioni trumpiane in politica estera su investimenti e ritorni, impegno e lealtà. A Islamabad, infatti, potrebbe pure essere tolto il titolo di alleato speciale extra-Nato. La minaccia di Trump non è che l’ultima in ordine cronologico su questo fronte: il Pakistan, come scrive il board editoriale del New York Times in un fondo, rappresenta “un dilemma di lunga data” per gli Stati Uniti. Da 16 anni è in piedi l’alleanza, l’amministrazione Bush l’ha scelto come partner privilegiato, ma nel corso degli anni sia George W. Bush che i suoi successori hanno richiamato all’ordine Islambad, rea di dare spazio a un territorio grigio all’interno delle strutture di governo (soprattutto tra i servizi segreti e i militari, che sono ancora una specie di forza politica che si muove con o contro il governo) dove avvicinarsi ai gruppi radicali (per idee e soprattutto interessi, o linee strategiche come nel Kashmir); nel 2011, l’ex capo delle Forze armate americane Mike Mullen, disse a una commissione del Senato che l’intelligence pakistana utilizzava il cosiddetto “Haqqani network” (una rete tribale legata al clan Haqqani che mescola l’ideologica radicale islamica ad attività criminali, ed è responsabili di attentati) come “un vero braccio” armato (accuse simili arrivano da anni da Kabul). Per dirla tutta: già nel 1990, a seguito della corsa nucleare pakistana, i rapporti con gli Stati Uniti furono tagliati, poi ripresi undici anni dopo per le necessità della Guerra al Terrore post 9/11 di Bush.

Il Nyt si chiede quanto però Trump abbia pianificato le ramificazioni del contraccolpo della linea dura (durissima: un eventuale taglio dei rapporti). Per esempio: lo spazio aereo pakistano è continuamente battuto dai voli che danno la caccia ai talebani, anche in Afghanistan, e le vie di comunicazione nel Pakistan sono le arterie logistiche su cui viaggiano gli approvvigionamenti alle truppe americane (e Nato) per i soldati del quasi ventennale contingente afghano –  che ultimamente Trump ha deciso di rinfoltire, anche per combattere le deviazioni di sottogruppi locali verso lo Stato islamico. Questi due aspetti rendono già l’alleanza con il Pakistan quasi indispensabile; in più va considerato che il lavoro di Islamabad è comunque importante, soprattutto nella raccolta di informazioni. Inoltre, c’è la possibilità che un taglio dei rapporti inasprisca ancora di più le posizioni di Islamabad nella contesa con l’India – nuovo grande alleato americano, che intanto gongola per le invettive di Trump contro i pakistani. Infine, una questione d’ordine superiore: val la pena perdere il Pakistan per poi lasciarlo completamente in mano alla Cina?

Pechino ha stanziato già circa 60 miliardi di dollari in infrastrutture, perché per il Pakistan – al confine con la turbolenta provincia dello Xinjiang, sede di movimenti estremisti islamici armati – passerà la One Belt One Road, il sistema commerciale con cui la Cina ha intenzione di tagliare la fascia continentale euroasiatica; un enorme investimento geopolitico. Da notare che comunque i cinesi hanno una visione drastica quanto quella di Trump sulle collusioni sottobanco tra frange del governo pakistano e gruppi estremisti, e non le tollereranno altrettanto, anche perché i militanti uiguri rintanati proprio nella regione di confine tra i due paesi sono un delicato problema di sicurezza nazionale per la Cina. Pechino, che ha già ottime relazioni e investimenti in Pakistan, sta pensando di costruire a Gwadar, sul confine con l’Iran, la sua seconda base militare extra-territoriale; sarà una struttura del tutto simile a quella di Gibuti, avrà una posizione strategica sul golfo dell’Oman (appena sud del Persico), e darà peso al ruolo cinese di potenza militare globale che proprio questi giorni il presidente Xi Jinping ha voluto sottolineare personalmente davanti a migliaia di truppe che hanno giurato fedeltà.

L’editorialista di politica internazionale del Corriere della Sera Franco Venturini, scrive che “se ora Donald Trump impugna il bastone del castigo e pretende obbedienza in cambio di dollari (lo ha già fatto senza successo all’Onu nel voto su Gerusalemme) i militari di Islamabad potrebbero essere i primi a volgersi verso Pechino dando libero sfogo al loro nazionalismo. Per Xi Jinping sarebbe un regalo sontuoso. E per Trump il peggiore dei boomerang”. “Chiedetemi chi è il player più grande” nel nostro paese ha detto un funzionario della Banca centrale pakistana al Financial Times, intendendo tra Stati Uniti e Cina: “La risposta è ovviamente Cina”.

 

×

Iscriviti alla newsletter