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Per Papa Francesco il conflitto in terra è diverso da quello dei cieli

Papa Francesco, Fortune/Time Global Forum, cosa ha detto Papa Francesco

“Ripetiamolo: Francesco vuole mettere Cristo al centro del mondo”. È martellante il direttore de La Civilità Cattolica Antonio Spadaro nel ribadire questo concetto, nelle pagine del suo ultimo libro edito da Marsilio “Il nuovo mondo di Francesco. Come il Vaticano sta cambiando la politica globale”.

Idea dal sapore quasi pleonastico, ma che probabilmente il gesuita ritiene sia bene non stancarsi mai di riaffermare. Ben venga cioè l’uso del termine “rivoluzionario” associato a Bergoglio, afferma in sostanza lo scrittore, a patto però che la chiave di lettura sia quella giusta. Ovvero che si collochi nella “evidente radice spirituale di ciò che intende realizzare”: perché la rilevanza politica del pontefice, indiscutibile e indiscussa, è allo stesso tempo “troppo spesso incompresa nella profonda connessione tra politica e spiritualità”.

L’IDEA DI CONFLITTO TRA GEOPOLITICA E VANGELO

Uno degli elementi fondamentali da prendere in considerazione per capire la geopolitica del Papa è infatti l’idea di conflitto. Termine che può essere, ovviamente, riferito alla politica internazionale. Ma che allo stesso modo può anche ricondurre alla spiritualità ignaziana, spiega Spadaro, nel confronto tra Cristo e Lucifero, in cui “la vita cristiana è una lotta, insomma, parallela ma differente, collegata ma non identificabile, rispetto allo scontro che sconquassa la storia del mondo”. C’è quindi un parallelo non sovrapponibile tra i conflitti internazionali e quelli di cui parla il Vangelo. Nel senso che non esiste, nella realtà, una divisione manichea in bianco e nero, in bene e male.

Ma vi sono al contrario infinite sfumature, e soprattutto interessi ben specifici sempre presenti e determinanti. Che portano però, in risposta, alla volontà del pontefice di dialogare sempre e con tutti. “L’impero del bene non è di questo mondo tanto quanto non lo è quello del male”, scrive il gesuita. Mentre il rischio di una loro sovrapposizione è quello della “fascinazione dello scontro di religione, una sorta di narrativa apocalittica del terrore in chiave trascendente, tra bene e male”. Che legittima cioè la retorica dello scontro di civiltà, trasformando la “comunità dei credenti” in “comunità dei combattenti”. Utilizzando quest’immagine già in passato proposta dal direttore de La Civiltà Cattolica sulla sua rivista, in uno scritto che ispirò notevoli reazioni, specialmente oltreoceano.

LA SOVRAPPOSIZIONE ALLE PARTI DI BENE E MALE

E che tuttavia Spadaro non evita di riproporre anche nel suo ultimo libro, chiamando in causa “network politici come lo statunitense Council for National Policy e il pensiero dei loro esponenti quali Steve Bannon”, da accostare altresì alla “teopolitica propagandata dall’isis”, o ancora prima da Osama Bin Laden. E ribattendo, senza timore, il ferro su quel genere di ”ecumenismo del conflitto” che il direttore della rivista dei gesuiti vede svilupparsi negli Stati Uniti, “tra fondamentalisti evangelicali e cattolici integralisti, accomunati dalla medesima volontà di un’influenza religiosa diretta sulla dimensione politica”.

L’errore “evidente” indicato da Spadaro, e ben individuato da Papa Francesco, è quello di sovrapporre al “conflitto tra le parti” il “bene e male che percorre la dimensione trascendente”. Mentre per Bergoglio adagiarsi su questo piano della discussione sarebbe soltanto “mondanità”. Dimostrando così come non è tanto “la diplomazia” la chiave del pontificato di Bergoglio, ma il “ruolo globale del cattolicesimo nel contesto odierno”, spiega Spadaro. L’immersione a peso libero del pontefice nell’agone della geopolitica è data infatti “da una fiducia unica nel mistero di Dio”, senza riservare alcuna attenzione “nel discernimento delle forze (partitiche, politiche, militari) con le quali allearsi”. Tutto ciò, chiosa il direttore de La Civiltà Cattolica, fa sì che il “potere mondano” venga “definitivamente de-sacralizzato”. In una stagione, per di più, di “ansia e insicurezza”, e all’interno della quale “Francesco sta svolgendo una sistematica contro-narrazione anche rispetto alla narrativa della paura”.

LA CONTRONARRAZIONE DI PAPA FRANCESCO

Il termine tuttavia centrale del papato di Jorge Mario Bergoglio è, ovviamente, misericordia, “vertice e fulcro della sua azione politica”. E quando dice alla politica di lasciarsi ispirare da essa “è chiaro che il suo sguardo travalica l’ambito della sola morale”, spiega Spadaro. È proprio qui che si ritrovano infatti le radici teologiche della “diplomazia della misericordia”: nell’azione di Dio “all’interno delle vicende di questo mondo”, di un Dio che agisce nella storia e che inserisce la Chiesa di Francesco nella città dell’uomo, nella formula di “ospedale da campo”, non più “faro luminoso ma distante”.

“Prospettiva tipicamente ignaziana”, spiega lo scrittore, “che cerca di comprendere e contemplare, attraverso l’esperienza, come Dio operi e agisca nella realtà”. E la misericordia, che è quindi l’elemento “propriamente ‘rivoluzionario’ della geopolitica di Bergoglio”, orienta le persone verso “processi di riconciliazione”. Naturalmente, nel fare questa disamina si pensa ai momenti fondamentali del pontificato di Bergoglio, come l’incontro tra Cuba e Stati Uniti, l’apertura della porta santa a Bangui, la visita a Lund, il contributo alla pace tra Colombia e Farc, la tregua in Ecuador, la visita ad Auschwitz, e altresì il suo sguardo di amicizia rivolto alla Cina.

IL VALORE POLITICO DELLA MISERICORDIA

Tutto considerando che la “pienezza del tempo” di cui parla il Vangelo “coincide proprio col tempo peggiore, in termini politici”, chiosa il giornalista. È la misericordia infatti che rivoluziona il “tempo di miseria” nella “pienezza del tempo”, ed è in questa dimensione che essa “acquista valore politico”. Nel “non considerare mai niente e nessuno come definitivamente perduto nei rapporti tra nazioni, popoli e Stati”. E nell’idea che “contemplare il volto di Dio porta a pensare la riconciliazione nello scacchiere mondiale come un obiettivo praticabile”.

Nessuno schieramento quindi da parte del pontefice sulla carta delle relazioni internazionali, nemmeno “per ragioni morali”. Perché il Papa “rifiuta la compenetrazione tra politica, morale e religione”: il suo atteggiamento si limita “nell’incontrare i maggiori player in campo, per ragionare insieme e proporre a tutti un bene maggiore”, senza entrare “in reti di alleanze precostituite”, ma “mantenendo i giusti rapporti tra dimensione politica e valori spirituali”. E impedendo “la possibilità di misurare l’impatto dei cattolici sulla società in termini d’influenza e di potere”, per evitare “di appiattire il religioso sul politico e viceversa”. La geopolitica di Francesco, semplicemente, “intende sciogliere i nodi, fluidificandoli con l’unzione del balsamo evangelico, cioè della misericordia”, e soprattutto smontando “le ideologia da guerra santa”.

LA FINE DEL COSTANTINISMO E IL NUOVO CAMMINO EVANGELICO

Se poi si vuole ragionare in termini più complessivi, ovvero guardando alle dinamiche culturali dell’intero globo appese tra storia e divenire, la lettura del Papa viene dal teologo gesuita Erich Przywara, ha spiegato in conclusione il direttore de La Civilità Cattolica. In particolare quando si teorizza “la fine dell’epoca costantiniana e dell’esperimento di Carlo Magno”, e si dice che la cristianità, cioè “quel processo avviato con Costantino in cui si attua un legame organico tra cultura, politica, istituzioni e Chiesa, si va concludendo”.

Che non coincide però con il tramonto spengleriano dell’Occidente, ma è piuttosto una “risorsa teologica decisiva” in cui è “Cristo stesso” che riprende “l’opera di conversione”, facendo cadere “il muro che quasi fino al giorno d’oggi ha impedito al Vangelo di raggiungere gli strati più profondi della coscienza” e “di penetrare fino al centro dell’anima”. Sottraendo in questo modo il “cristianesimo alla tentazione di rimanere erede dell’impero romano”, e decretando la fine virtuale del costantinismo, con lo spalancarsi della “possibilità per la Chiesa di riprendere i cammini evangelici avviati da Francesco d’Assisi, Ignazio di Loyola e Teresa di Lisieux“, e di rompere “la barriera che la separava dai poveri ai quali il cristianesimo è sempre apparso come l’ideologia politica dei ceti dominanti”.

LO SCHEMA TEOPOLITICO ESCATOLOGICO DI SAN FRANCESCO

Entrando cioè nel corso della storia dalla porta dei poveri, e nel mettere davanti allo “schema teopolitico imperiale di eredità costantiniana” quello “francescano che è escatologico, cioè guarda al futuro e intende orientare la storia presente verso il Regno di Dio futuro, regno di giustizia e di pace”. Perché “i gesuiti non devono mai scegliere tra Dio e il mondo, ma sempre Dio nel mondo”, conclude padre Spadaro, prima di lasciare spazio agli interventi di altri vaticanisti, scrittori, religiosi o esperti della Chiesa.

Ovvero alle firme di Luigi Accattoli, Giulio Albanese, Giorgio Bernardelli, Alberto Bobbio, Giancarlo Bosetti, Lucia Capuzzi, Giovanna Chirri, Fabio Colagrande, Riccardo Cristiano, Vania De Luca, Massimo Faggioli, Giacomo Galeazzi, Orazio La Rocca, Matteo Matzuzzi, José Luis Narvaja, Francesco Peloso, Enzo Romeo, Iacopo Scaramuzzi, Piero Schiavazzi, Francesco Sisci, Gianni Valente, Roberto Zuccolini. “È necessario aprire gli occhi sulla realtà e affrontarla, senza partire con un’idea a priori da applicare come una gabbia o come un’etichetta”, afferma ancora il gesuita, tracciando il suo ritratto disincantato e a tutto tondo del pontefice argentino. “Francesco, coerentemente con questa impostazione, non è un idealista, ma un uomo molto concreto che ama la realtà”.

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