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Caro Silvio, su protezionismo e Usa attento all’abbaglio europeista

Silvio Berlusconi si riscopre sempre più europeista. È un crescendo giornaliero di esternazioni d’amore verso Bruxelles, i suoi palazzi e chi vi abita. È riuscito a far venire il mal di pancia a buona parte della coalizione per l’inaspettata photo-opportunity nella capitale belga assieme a Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione, cui lo lega, a suo dire, “un’antica amicizia”, e per gli abbracci con i vertici del Ppe, la famiglia popolare cui il centro-destra, sempre a suo dire, non per Salvini e Meloni, appartiene a pieno titolo. La stessa famiglia di Angela Merkel, la cancelliera tedesca appena uscita da una lunga trattativa istituzionale in casa, con cui il leader forzista ha ritrovato (scoperto?) un rapporto “di stima e interesse reciproco”.

Oggi il Cavaliere torna a schierarsi con Berlino. E lo fa alla radio, intervistato da Rtl, difendendo a spada tratta il discorso anti-Trump della cancelliera al World Economic Forum di Davos, e dando giù al presidente americano. “Sono d’accordo con Angela Merkel: l’idea di protezionismo voluta da Trump non è positiva neppure per gli stessi Stati Uniti”. C’era proprio bisogno, dopo l’interminabile carosello contro il protezionismo made in Usa che ha occupato (ancora una volta) il palcoscenico svizzero, di gettare nel calderone della campagna elettorale un’affermazione di questo tipo? No, e c’è più di un motivo per pensarlo.

Sorprende, innanzitutto, la ramanzina al presidente statunitense, dopo che il Cav ha lodato a più riprese, l’ultima a inizio gennaio, le “scelte coraggiose” (parole sue) dell’amministrazione Trump, accusando per di più il governo italiano di “un certo provincialismo”. L’impressione è che le lancette dell’orologio di Berlusconi siano rimaste ferme a qualche mese fa. Qualcuno dovrebbe informarlo che, se c’è un successo inequivocabile in mezzo a tante delusioni per l’inquilino della Casa Bianca, quella è la politica economica. Che il tanto vituperato “protezionismo” di Trump ha consegnato a fine anno un Paese con un Pil che ha quasi triplicato il tasso di crescita, il Dow Jones che batte record su record, la disoccupazione degli over 16 ridotta ai minimi storici dal 2000. Per di più, la riforma fiscale incassata da Trump alla vigilia di Natale, che tanto sembra aver ispirato la “flat tax” del centrodestra, comincia a dare i suoi primi frutti: la lista delle imprese, Apple, Toyota, Mazda, Disney per citarne alcune, pronte a riportare gli stabilimenti negli States e creare nuovi posti di lavoro si ingrossa ogni settimana.

Secondo poi, sarebbe opportuno riascoltare a mente fredda le invettive anti-Trump di Macron e Merkel. E chiedersi se valga la pena inseguire Parigi e Berlino su un terreno scivoloso, per poi pagarne le conseguenze, all’indomani di un eventuale approdo a Palazzo Chigi. La platea di Davos è rimasta incantata, dicono, dalle prolusioni macroniane contro il protezionismo Trumpiano, condite qua e là da un’ironia molto francese, quella del “make our planet great again” che il giovane presidente ha sfoggiato già in passato. Lo stesso Macron che una settimana fa ha dato disposizione di ampliare la lista delle aziende strategiche francesi blindate dagli investimenti stranieri, e che la scorsa estate ha bloccato l’acquisizione dei cantieri di Saint Nazaire da parte di Fincantieri. Bene, è notizia delle ultime ore che quel Macron, tanto indignato da Trump il protezionista, sarà il primo a fare visita ufficiale negli States nel 2018. Accompagnato da una folta delegazione di imprese francesi pronte a fare business, si intende.

Attenzione, dunque, a farsi prendere troppo la mano dalla causa europeista con uscite un po’ maldestre. L’Italia, ben più di Francia e Germania, deve difendere e curare i rapporti con il suo primo alleato e partner commerciale oltreoceano.

 

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