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Il merito di Trump? La coesione europea. Parola di Giampiero Gramaglia

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Formiche.net ha dedicato all’anniversario del primo anno di presidenza di Donald Trump una serie di approfondimenti, attraverso le letture di analisti ed esperti. Giampiero Gramaglia, giornalista esperto di Esteri ha scalato tutti i ruoli all’interno dell’Ansa dalla sede di Washington fino alla direzione, attualmente collabora con l’Istituto Affari Internazionali (Iai) dove dirige Affari Internazionali.

Che cosa è cambiato con la presidenza Trump?

Più facile, o almeno più breve, sarebbe dire che cosa non è cambiato. Il presidente Trump ostenta discontinuità rispetto al suo predecessore Barack Obama, di cui ha voluto revocare numerose decisioni, in particolare in materia di diritti civili e tutela dell’ambiente, talora senza riuscirci. E se sui fronti dell’economia o dell’energia sembra a tratti collocarsi nel solco di Reagan o dei Bush, in politica estera è spesso in palese contrasto con le posizioni più consolidate degli Stati Uniti ed è talora contraddittorio con se stesso a distanza di poche settimane. Ma l’elemento distintivo è, soprattutto, la rozzezza del pensiero, dei discorsi e dei comportamenti: franchezza e chiarezza diventano sinonimi di pochezza e semplicismo; dietro l’azione non pare esserci un’idea, ma piuttosto il disprezzo delle idee.

Dove questa Amministrazione è in continuità con le precedenti?

Rispetto a Obama, direi su nessun punto. Rispetto ai presidenti repubblicani del recente passato, c’è un richiamo al liberismo in economia (contraddetto, però, da tentazioni di protezionismo) e una vicinanza più esibita che reale all’industria energetica (che, però, è più avanti dell’Amministrazione sulle questioni climatiche). La riforma fiscale rischia, poi, d’infrangere un tabù repubblicano: farà aumentare il debito, nonostante una prevedibile riduzione della spesa pubblica.

E dove ci sono le discontinuità più profonde? 

Sulla responsabilità ambientale e sui diritti civili, con il ritorno a un clima e a discorsi da America Anni Sessanta, se non addirittura Anni Cinquanta. Un colpo di coda ‘bianco’ era prevedibile, dopo la presidenza Obama. Ma l’incoraggiamento della presidenza, che pareva essersi attenuato dopo l’estate, ma che è riemerso nella volgarità delle espressioni sui migranti, gli dà forza e virulenza. Le discontinuità sono profonde anche sull’insieme della politica estera: con l’eccezione d’Israele, alleati e partner sono disorientati e talora bistrattati; e le controparti sono minacciate o blandite senz’altra apparente logica che le pulsioni presidenziali. Per Cina e Russia, e non solo, l’imprevedibilità dell’interlocutore è imbarazzo maggiore dell’ostilità.

La presenza di Trump ha inasprito la concorrenza con alcuni avversari e ha allargato la distanza con alcuni alleati? 

Certamente sì. Soprattutto, ha aumentato o ha creato, sia negli antagonisti che negli alleati, sfiducia o diffidenza nei confronti degli Stati Uniti, da cui non sai mai che cosa aspettarti. Un atteggiamento generalmente attribuito ai cinesi in politica estera pare essersi generalizzato: attendere lungo la riva del fiume, sull’argine più alto, che la piena passi, cercando di limitarne i danni e sperando di uscirne il più possibile indenni. Quattro anni, se saranno quattro e solo quattro, passano in fretta e possono contare poco, nella storia del Pianeta.

In definitiva, cosa c’è di positivo e cosa di negativo nel primo anno dell’Amministrazione per l’equilibrio globale e per un alleato come l’Italia? 

Di positivo, faccio fatica a trovarci qualcosa. Di negativo, c’è tutto quello che ho già detto. Però, una cosa buona, nell’atteggiamento dell’Europa e dell’Italia, mi pare di poterla rilevare: con l’eccezione iniziale, ma presto rientrata, della Gran Bretagna, l’Unione non s’è né sdraiata né allineata sull’America di Trump. E l’Italia non ha ceduto alla tentazione di andare a scodinzolare per prima a Washington. Questa presidenza degli Stati Uniti sta dando un contributo involontario, ma importante, alla coesione dell’Ue.

 

 

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