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Perché difendere Eni dal processo mediatico. Parla il prof. Giulio Sapelli

Una nuova vicenda giudiziaria ha fatto irruzione nel sistema dell’informazione. Le gravissime accuse, asseverate dal giudice che ha disposto le misure cautelari, fanno emergere un quadro che se confermato merita di essere definito inquietante. Al centro delle vicende di presunta corruzione ed inquinamento giudiziario, vi è una grande azienda italiana, forse la più rilevante: l’Eni, la quale – va ricordato e sottolineato – non è al momento oggetto di addebiti da parte della magistratura inquirente. Se quindi è giusto che la giustizia faccia il suo corso, senza indulgenza, altrettanto utile è fermarsi a riflettere sulle sorti di questo campione nazionale finito nella bufera mediatico-giudiziaria. Formiche.net ha interpellato Giulio Sapelli, storico ed economista di fama internazionale e consigliere di amministrazione della fondazione Eni Enrico Mattei.

Professore, l’inchiesta che vede coinvolti manager Eni sta portando alla luce una pericolosa commistione fra poteri economici, politici, ma anche giudiziari. Le sembra un caso isolato, o si tratta di una malattia congenita del nostro Paese?

Non è la prima volta, non è una malattia isolata. Ricordo una famosa pagina, indimenticabile, de “Le radici della politica assoluta” di Alessandro Pizzorno, edita più di 25 anni fa, in cui prevedeva che il problema della democrazia sarebbe stato “il potere ordinamentale dei giudici”. Basti guardare cosa sta succedendo in Brasile: non è altro che la ripetizione, all’ennesima potenza, di quanto è successo qui in Italia negli anni ’90.

Dirigenti dell’azienda sono oggetto di accuse molto gravi ma il cane a sei zampe non è indagato eppure si legge (e quindi di parla) di inchiesta Eni.

L’Eni mi sembra molto indebolita. Mi sembra completamente sotto attacco. Un glorioso alce assalito da una muta di cani inferociti, che – profittando di una doverosa azione giudiziaria – vogliono sottrarla all’Italia.

Riconoscerà che è positivo il fatto che la giustizia italiana non mostra timidezza nei confronti dei giganti dell’economia.

Più che positivo. Sarebbe aberrante immaginare zone di impunità, che peraltro nessuno chiede. Quello che inquieta è il cortocircuito mediatico. Ricordo, per fare un esempio, che l’ingegner Guarguaglini, che più di un celebre giornalista ha perseguitato, non ha mai ricevuto un avviso di comparizione davanti al magistrato. Ciononostante, sotto il peso dei professionisti dello scandalismo, ha dovuto dimettersi da Finmeccanica. Da allora il colosso della difesa italiana ha avviato un processo di gravissimo ridimensionamento. L’inizio della fine è avvenuto senza che ci sia mai stato neppure un avviso di garanzia.

Crede che le aziende strategiche italiane siano troppo spesso esposte al fuoco dei processi mediatici?

L’Eni non è un’industria qualunque, lavorare con l’energia non vuol dire fare cioccolatini. La vicenda di cui stiamo leggendo in questi giorni avviene nel momento in cui l’Eni è in grande spolvero, è in ascesa dal punto di vista della ricerca mineraria. Eppure, nel rispetto del doveroso lavoro dei magistrati, non ha una difesa governativa. Lei si immagina la Total lasciata indifesa dallo Stato francese, o la British Petroleum da quello inglese? Per non parlare della statunitense Exxon Mobil: il suo amministratore delegato, Rex Tillerson, ora è Segretario di Stato.

C’è il rischio che un processo mediatico preventivo danneggi irreparabilmente la reputazione dell’Eni?

L’Eni è un’azienda così importante, forte e radicata che, credo, uscirà a testa alta da questa difficile congiuntura grazie alla qualità del suo management. La giustizia faccia il suo corso, inesorabilmente. Ma si presti attenzione alle distorsioni dei media. Leggevo l’altro giorno un articolo de Le Figaro che lamentava il sistema di processo mediatico e sui mass media prima che nei tribunali che ormai prolifera anche in Francia. Bisognerebbe che si tornasse a quella deontologia professionale e giornalistica che era un vanto italiano.

Teme un caso come quello di Finmeccanica? L’ad Giuseppe Orsi venne arrestato e l’azienda umiliata al punto che successivamente dovette cambiare nome. Salvo scoprire poi che Orsi era innocente.

Inutile nasconderselo: il rischio c’è. Io ho sempre manifestato pubblicamente e personalmente la mia solidarietà a Giuseppe Orsi, anche quando era in carcere. Personaggi come lui e Guarguaglini ci fanno onore. Il caso Finmeccanica fu un attacco politico, che veniva dall’Europa in chiave anti-inglese e anti-americana. Se Finmeccanica si era salvata dal baratro in cui l’avevano fatta cadere prima è perché gente come Guargualini, Orsi, Soccodato e De Benedictis ha imboccato la strada maestra di un’industria come la nostra: l’alleanza con il Regno Unito per lavorare nel mercato statunitense.

In questi ultimi mesi il presidente francese Emmanuel Macron ha dimostrato a più riprese di esser pronto a difendere l’interesse nazionale, anche a costo di mettere da parte, per un momento, le idee di libero mercato che lo hanno portato En Marche verso l’Eliseo. Secondo lei su questo l’Italia deve imparare dalla Francia?

Certo che ha da imparare. La Francia ha un sistema di porte girevoli fra Stato, imprese pubbliche e private. La ragion di Stato supera il pericolo del conflitto di interesse: questa è l’essenza della storia della Francia che inizia da Colbert e arriva ai giorni nostri. In Francia vige la filosofia del civil servant: chi fa gli interessi dei privati, così come chi fa gli interessi dello Stato, deve sempre fare l’interesse del Paese. Per un italiano è difficile capirla, perché la nostra borghesia imprenditoriale ha una formazione da familismo amorale. Per i privati francesi, prima dei padroni e degli azionisti, esiste la Repubblica.

È anche vero che la strenua difesa di Macron dell’interesse nazionale francese si è ritorta contro l’Italia. Penso al caso Fincantieri…

Non dimentichiamo che Mattei è stato ucciso dai fascisti francesi, nello stesso mese dell’attentato a De Gaulle, quando aveva già concluso con la Esso un accordo di spartizione delle sfere di influenza. L’Italia deve essere difesa dai vicini, con cui comunque deve mantenere dei buoni rapporti. È quello che faceva Camillo Benso di Cavour, che sapeva quanto fosse pericoloso Napoleone III, ma al tempo stesso lo usava a suo favore. Ad ogni modo ho qualche dubbio su “l’accordo del Qurinale” fra Italia e Francia. Non è chiaro cosa contenga ed il Parlamento ne è stato istituzionalmente informato.

Quindi?

L’unica nostra speranza rimane la salda alleanza con gli Stati Uniti d’America, altrimenti Francia e Germania faranno di noi un corpo dilacerato.

I partiti, i leaders, le sembrano consapevoli?

Serve grande intelligenza strategica, ma soprattutto un grande spirito di patria, e non questo squallido cosmopolitismo che si annida nella classe politica italiana oggi. Il risultato è che le destre fasciste sono le uniche a difendere la patria, e questo è molto pericoloso. Mi aspettavo molto da Gentiloni, speravo nel suo lignaggio. Avrei voluto uno spirito più patriottico, soprattutto con i francesi nel caso Fincantieri. Quando sento parlare Bruno Le Maire o Emmanuel Macron sento innanzitutto un francese. Noi siamo italiani prima che europei, e non dobbiamo vergognarcene.

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