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Attenzione al divario salariale generazionale, l’insicurezza del lavoro scoraggia i giovani europei

Di Andrianos Giannou
lavoro

Questo fine settimana, più di 130 giovani leader europei saranno presenti ad una conferenza organizzata a Milano dalla Gioventù del Partito Popolare Europeo e dalla Forza Italia Giovani. I delegati, che rappresentando più di 40 organizzazioni giovanili di centro-destra di 35 paesi europei, mireranno ad affrontare le sfide dell’automazione ed il futuro del lavoro nell’era digitale – la loro era – per dare forma alle vite e prospettive dei giovani europei a venire.

Se il Fmi non avesse pubblicato, alla fine di gennaio, uno studio allarmante sulla crescente povertà giovanile e la disuguaglianza generazionale in Europa, avremmo ancora buone ragioni per festeggiare l’entrata in un nuovo anno con risultati notevoli nella lotta contro la disoccupazione giovanile. Nonostante ci siano più giovani occupati ora che in qualsiasi altro momento dal 2008 (il tasso medio era di 16,2% lo scorso novembre, rispetto ad un picco del 24% a gennaio 2013), uno su quattro di essi è a rischio di povertà. Quella statistica era di uno su cinque dieci anni fa. A prima vista, queste cifre sembrano antitetiche. Allora, qual è la realtà che si nasconde dietro di loro?

Uno sguardo più attento rivela il nuovo anatema per il benessere della generazione Y europea: la sottoccupazione. La qualità dei posti di lavoro da loro occupati si sta rapidamente allontanando dal vecchio ideale di “lavoro a vita” “dalle 9 alle 5”. I giovani europei si trovano invece sempre di più in situazioni di lavoro alternative e il lavoro part-time, temporaneo o di agenzia potrebbe essere presto prevalente. Alcuni giovani europei ci si ritrovano per propria scelta: non esiste permanenza nell’economia “dei lavoretti” e molti preferiscono il rapporto lavoro/vita privata che tali contratti offrono. Ma coloro che sono finiti in posti di lavoro non stabili per mancanza di alternative si sentono delusi da un sistema di sicurezza sociale che è stato progettato per alimentare carriere strutturate, su di cui sopravvivere.

La reazione istintiva di qualsiasi decisore politico sarebbe di tornare alle misure di potenziamento della crescita. Questo sarebbe corretto soltanto a metà. I tassi di disoccupazione giovanile sono tre volte più sensibili alla crescita del Pil rispetto ai tassi complessivi per gli adulti, come dimostrato da precedenti studi del Fmi. Ma c’è un altro lato della medaglia – viene così dimostrata l’iper-precarietà dei posti di lavoro dei giovani europei quando le cose peggiorano. Quale sarebbe la soluzione strutturale, a lungo termine ed antiurto?

In generale, le fluttuazioni nei tassi di disoccupazione giovanile possono essere attribuite per metà a variazioni della produzione. L’altra metà lascia spazio per una buona politica. Di solito riceviamo un mix di risposte dai responsabili delle politiche: dall’ovvio, come l’investimento nell’istruzione, nelle competenze e nella formazione, al più complesso, come ottenere il diritto al salario minimo. Certo, non esiste una panacea ma è mai stata una politica prioritaria questa lotta contro la povertà giovanile? Le cifre mostrano che il punto di riferimento per la riduzione generale della povertà è stato la povertà degli anziani: tra il 2006 e il 2012, la spesa pensionistica è aumentata di quasi il 12%, nonostante il fatto che quel segmento della popolazione è aumentato solo del 3%. Nessun aumento simile è stato rivolto ai giovani.

Certo, è fondamentale che ci prendiamo cura della generazione più anziana – la generazione che ha contribuito a costruire l’Europa che conosciamo oggi, ma questa attenzione non deve diminuire gli investimenti nel futuro del continente. Una ricerca nel Regno Unito, ad esempio, mostra che un anno di disoccupazione prima dell’età di 23 anni si tradurrà in guadagni inferiori del 23% per dieci anni a venire. In altre parole, sfuggire alla trappola della povertà potrebbe rivelarsi un’aspra lotta, anche per i giovani. I dati demografici sfavorevoli hanno fatto sì che l’onere di questa spesa sia diventato sproporzionatamente elevato per i nuovi arrivati e potrebbe diventare insostenibile.

Questo non è certamente un appello ad un conflitto intergenerazionale per la spesa pubblica – è la solidarietà intergenerazionale che dovrebbe essere il principio guida. Ciò che è necessario è un approccio più equilibrato per impedire l’intero sistema di collassare. Dovremmo promuovere misure che garantiscano l’accesso definitivo al sistema di sicurezza sociale a coloro in grado di provvedere ai bisogni di tutti.

Di più, la flessibilità dovrebbe applicarsi a tutti i tipi di contratti. Spesso in Europa, la flessibilità caratterizza solo quegli accordi di lavoro alternativi, mentre i contratti stabili sono governati dalla rigidità. Questa dualità significa che coloro che sono in posizioni meno stabili sono i primi a partire in situazioni di crisi: l’impossibilità, per esempio, di abbassare in queste situazioni le retribuzioni dei dipendenti a tempo indeterminato – il personale permanente – significa che i giovani, che lavorano in una proporzione più elevata con accordi flessibili e instabili, ne pagano il prezzo. La flessibilità introdotta in fretta, mirata ad essere un sostegno ai giovani per salire sulla scala gerarchica, potrebbe condannarli a rimanere bloccati sul primo gradino, se i responsabili politici non sono pronti ad andare fino in fondo.

Vi sono più misure da prendere in considerazione: l’abbassamento del cuneo fiscale, ad esempio, è stato collegato a risultati positivi. Quel che è certo è che migliorare il benessere dei giovani europei non è semplicemente una conseguenza della crescita – si tratta anche di una scelta. Una scelta che noi, come società, dovremo fare per costruire un futuro per l’Europa.

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