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Quanto costa la politica estera e militare di Putin?

Per quanto ancora il Donbass, la regione orientale dell’Ucraina dove sono state autoproclamate le due province separatiste di Lugansk e Donetsk, resterà un interesse russo? Ci sono segnali che il dossier possa imboccare una buona strada, anche se si resta distanti da una soluzione pronta, e queste aperture, soprattutto sul lato russo, possono coincidere con un’esigenza imprescindibile per Mosca: le guerre russe sono un onere troppo elevato per il Cremlino.

A novembre, il presidente Vladimir Putin ha ospitato nel suo fortino di Sochi i leader della Difesa (lato politico, militare e industriale) per presentare il Programma di armamenti strategico (GPV), ossia il piano militare con cui la Russia affronterà i prossimi anni (quello vecchio scadeva nel 2017, ora il nuovo va dal 2018 al 2027, ha avuto ampie approvazioni formali, ma ancora il presidente non lo ha firmato). Un ammodernamento è necessario, imprescindibile, spiegano gli analisti (per esempio, la Catham House dà una lettura secca della situazione delle forze armate russe, deficienti sia su terra, che in aria e mare), soprattutto se Mosca vuol continuare a essere una potenza che esercita militarmente la propria deterrenza.

Il lancio del nuovo programma di armamento è stato ritardato per colpa di una combinazione di fattori, tra cui il peggioramento della situazione economica della Russia, il suo costante coinvolgimento nella guerra in Siria e la necessità di sostituire componenti ucraini in alcuni sistemi d’arma.

Putin ha stanziato 19 trilioni di rubli (275 miliardi di euro) per la spesa militare: soldi da spalmare nei prossimi dieci anni, ma diversi dei settori dovranno restare indietro (e molti lo sono già rimasti: per esempio, il precedente programma aveva come obiettivo un incremento annuale di 50mila militari specializzati fino al 2017, ma negli ultimi due anni tutto è saltato; così come l’obiettivo di acquisto di 60 super caccia PAK-FA e la creazione di un’armata di tank T-14). A risentirne saranno soprattutto le ricerche tecnologiche – su cui pesano anche le sanzioni internazionali post-Crimea, altro motivo per allentare la presa in Ucraina – e la manutenzione straordinaria, e questo perché i fronti aperti in Ucraina e soprattutto in Siria, sono costosi.

Mosca non ammette la propria presenza nel Donbass, ma è una posizione con cui evita il coinvolgimento diretto su un’altro affare territoriale delicato, sebbene sia noto che stia passando armi ai ribelli separatisti; l’inviato speciale che la Casa Bianca ha nominato per gestire la crisi ha confessato in un’intervista di qualche tempo fa di essere esasperato dalle continue negazioni sul coinvolgimenti con cui la controparte russa apre tutti gli incontri diretti sul dossier-Ucraina.

Se l’Ucraina non rientra tra le spese formali della Difesa di Mosca, dato che la presenza russa nel Donbass non è mai stata formalizzata, la Siria è un grosso peso. Imbarazzante ancora di più quando si inizia a parlare di perdite non solo economiche ma di vite dei soldati. Piano politico-sociale ed economico-militare si intrecciano in queste circostanze.

Mesi fa la Reuters pubblicò un’inchiesta giornalistica con cui dimostrava che i soldati russi stanno morendo in Siria, ma Mosca truffa sul numero dei caduti: ne ha ammessi meno della metà per non sconvolgere l’opinione pubblica; l’Associated Press raccontava anche che le famiglie dei contractors che partono per il fronte siriano devono firmare una specie di accordo di non divulgazione sulle informazioni che potrebbero riguardare la morte o il ferimento dei propri cari.

I contractors servono a mantenere basse le perdite, perché così i governi – in questo caso quello russo, ma è una prassi comune – non si trovano costretti ad ammettere le morti di soldati regolari; ma sono comunque costosi. Alcuni di loro nei giorni scorsi sono stati centrati da un raid americano, il numero delle vittime non lo sapremo mai, ma il ministero degli Esteri russo ha dovuto ammettere la morte di almeno cinque russi (i media indipendenti internazionali parlano di dozzine di perdite).

E poi ci sono le missioni aeree, il grosso dei costi, e le attività di intelligence, che richiedono tecnologie enormi (altrettanto costose): attività quotidiane con cui Mosca deve mantenere la presa a Damasco e utilizzare, in futuro, il pantano siriano a proprio favore.

In tutto questo, non va dimenticato il momento interno. Putin si sta avvicinando a un delicato appuntamento elettorale: il presidente sarà rieletto, ma il suo potere dipenderà anche da quanto consenso, in termini numerici, potrà raggiungere. L’affluenza non è un fattore statistico: se i russi andranno ai seggi a votarlo, vorrà dire che la politica a tratti aggressiva rivendicata dalla sua presidenza ha funzionato, mentre l’astensione sarà una forma, velata (in un paese dove il dissenso è rischioso) di contestazione.

E a quel punto, se la forza politica dovesse essere minore, sarebbe complicato convincere i russi che i fondi per pensioni, istruzione, welfare, assistenza sanitaria, devono essere deviati per mantenere attive le costose politiche militari. In Russia, in realtà, è iniziata dal 2015 una riduzione della spesa militare e lo stesso GPV-2027 è molto meno ambizioso delle aspettative, ma l’ottima propaganda con cui viene diffusa al mondo l’immagine del presidente – e delle sue emanazioni muscolari, come appunto le armi – hanno distratto l’attenzione internazionale e accontentato i fan più sfegati di una Russia zarista armata.

Non è un caso se ai missili Iskander schierati in chiave di deterrenza verso la Nato a Kalinigrad, il presidente abbini continui annunci di ritiro dalla Siria: “La patria vi aspetta”, ha annunciato l’ultima volta a dicembre, mentre dalla base aerea russa in Siria di Hmeimim parlava ai soldati, dichiarando la fine vittoriosa di una guerra che poco interessa ai russi, ma pesa sui non rosei bilanci federali.

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