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Phisikk du role. E se invece della grande coalizione avessimo il governo delle astensioni?

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La maggiore fonte di ansia per il mondo politico contemporaneo, il sondaggio elettorale, si è burocraticamente azzittita a norma di legge e, almeno per le informazioni “in chiaro”, non ce ne sarà più fino al redde rationem del 4 marzo.

I più dotati di mezzi potranno attingere ancora “in privato” ai servigi costosissimi delle società demoscopiche e così conserveranno gli standard ansiogeni che sono anche un buon carburante per mantenere adeguati livelli di testosterone sul fronte della propaganda. Perché la campagna elettorale va avanti e ora entra nel suo vivo.

Un po’ moscia, per la verità, ma pur sempre una manna per i telegiornali: provate a togliere quel poco di cabaret a buon mercato dei “candidati premier” e vi accorgerete che l’informazione che resta è solo cronaca nera. Comunque quel che dovevano dire i sondaggi l’hanno detto: con questa legge elettorale – che non prevede premio di maggioranza – è ben difficile che qualcuno, partito o coalizione che sia, riesca ad avere l’autosufficienza per governare. Nè, numeri sondaggiati alla mano, apparirebbe plausibile che Renzi e Berlusconi, senza il concorso di altri sostenitori, potrebbero da soli garantire una maggioranza di governo (la mitica “grande coalizione”).

E allora? Allora o si riesce a raccogliere per strada qualche grappolo di parlamentari aggiuntivi rispetto a un consistente (ancorché insufficiente) blocco di partenza iniziale, oppure il governo attualmente in carica (Gentiloni) potrebbe trovarsi nelle condizioni di accompagnare la legislatura a una morte prematura.

Dice: tornare alle urne con questa legge elettorale? E cosa cambierebbe? Poco o niente, forse, almeno nel breve. Ma la democrazia parlamentare non conosce altre risorse se non tornare alla fonte sovrana della legittimazione, cioè il popolo, per riprovarci. A meno che, guardando nella storia repubblicana, seppure quella lontana alcune ere glaciali fa, nel cuore della Prima Repubblica, non si rintracci qualche precedente a cui far riferimento.

1976, chiuse le urne, risultano sul campo due vincitori in quella gara bipolare che a quei tempi si giocava: Dc e Pci. Solo che si trattava di due soggetti fra loro antagonisti, attraverso cui si toccava una fenditura lunga quanto tutto il Paese tra i due irriducibili poli. Il contesto: fermenti sociali, terrorismo, crisi economica fortissima. Ma una teoria ed una prassi del reciproco riconoscimento era partita fin dall’autunno del 1973 con tre articoli di Berlinguer su Rinascita, col ragionamento sul “Compromesso Storico”, sulla necessità di non spaccare il Paese in ragione delle due ideologie contrapposte, sulla ricerca di nuove forme collaborative.

Aldo Moro avrebbe risposto con la strategia dell’attenzione e del confronto. I prodromi, pieni di succo politico, non c’è dubbio, e di protagonisti giganteschi, c’erano tutti, e così il 30 luglio 1976, 38 giorni dopo il voto che aveva visto per la prima volta la partecipazione dei diciottenni, poté essere varato il governo Andreotti III. Si trattò di un monocolore democristiano ribattezzato dai media come “governo della non sfiducia” perché poté contare sulla benevola astensione del Pci e delle altre forze politiche di centrosinistra. Al partito comunista venne riconosciuta per la prima volta nella storia repubblicana la presidenza della Camera con Pietro Ingrao, inaugurando una prassi che durò per tutta la prima Repubblica.

Il governo della “non sfiducia” durò un anno, sette mesi e dieci giorni. La legislatura, invece, quasi tre anni, attraversando la pagina più drammatica della vita civile della Repubblica italiana con il rapimento e l’omicidio di Moro e della sua scorta. Ma questa è già un’altra storia.

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