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Il ‘68 e quella rivoluzione mancata secondo Marco Rizzo

Di Marco Rizzo

Il ‘68 è stato un movimento principalmente giovanile; la classe rivoluzionaria si spostava dal proletariato alle nuove generazioni. C’era Marx, c’era Lenin, c’era la decolonizzazione del Vietnam, ma anche la contestazione nel modo di vestire, nello scegliere la musica, nel vivere la sessualità. C’era all’orizzonte la società comunista senza sfruttati né sfruttatori, si manifestava contro l’alienazione generata dal capitalismo, ma si voleva anche la “fantasia al potere”. La critica alla delega e alla rappresentanza era feroce, ma non si vedeva l’efficacia dell’autodisciplina (anche quella di partito). Ci si batteva contro la repressione e la selezione di classe, ma si flirtava con la psicanalisi di Freud e la sua versione di sinistra con William Reich; si teorizzava la liberazione della donna e si ponevano le basi per il femminismo militante. Insomma, c’erano i capisaldi della rivoluzione sociale, ma c’erano anche le lotte per interpretare – creativamente – i diritti individuali della rivoluzione francese.

Il movimento del ‘68 fu poderoso; ha influenzato le lotte degli anni successivi, specialmente in Italia. Se dovessimo dare un aggettivo ai movimenti che vennero in seguito, si può partire da un ‘68 giovanile per arrivare a un ‘69 operaio e a un ‘77 proletario.

Ma un vero e proprio bilancio lo si può fare guardando cosa è successo con, e dopo, il ‘68. Dal punto di vista politico, l’effetto sui rapporti di forza reali in Italia e all’estero fu debole: in Italia ci fu la nascita dei gruppi extraparlamentari, ma Andreotti mantenne il governo democristiano del Paese; negli Stati Uniti la stagione delle proteste contro la guerra in Vietnam si concluse con un nulla di fatto, anzi fu lo stesso Nixon a chiudere quella guerra; in Francia, il Maggio francese non impedì la vittoria a De Gaulle che si ricandidò e vinse appunto in contrasto ai moti studenteschi.

Mentre in occidente la critica alla produzione dei beni di consumo e al mercato era realmente di massa, nel campo socialista, poco prima, la competizione kruscioviana aveva scelto l’obiettivo della parità col capitalismo non sull’uguaglianza, sul lavoro, sulla sicurezza sociale, sulla cultura, ma proprio sulla produzione di beni di consumo. Il danno revisionistico dell’uomo che aveva rinnegato Stalin diede i suoi amari frutti negli anni successivi; mentre a Parigi, a Roma, a Berkeley si contestava il mercato, a Praga e a est, in fondo, si cominciava a volere proprio quello.

Alla fine, in tutto il mondo, l’emancipazione fu solo quella dei costumi – e dei consumi – individuali. E pensare che non si voleva migliorare la società, la si voleva rivoluzionare (“lo stato borghese si abbatte, non si cambia”). La lotta sociale sembrò poi cedere il passo al sesso libero, alla droga e poi ai diritti individuali.

In sostanza, il ‘68 nacque con una forte aspirazione di diversità, ma restò fermo alla rivoluzione francese (borghese) e prese poco – o niente – da quella sovietica dei diritti sociali. In Italia, ma anche all’estero, le élite della generazione di chi ha fatto il ‘68 hanno poi rimpinguato la classe dirigente con intellettuali, manager e magistrati. Amaramente, nel suo complesso, il ‘68 è risultato, al di là delle volontà singole e collettive, più un processo di ristrutturazione e ammodernamento del apapitalismo che non un cambiamento strutturale della società. Non un movimento di emancipazione dal capitalismo, ma del capitalismo.

Il fallimento dell’utopia del ‘68 arriva fino a noi e ci coinvolge interamente. Non sarà un caso che, invece di aver visto la rivoluzione, viviamo oggi in un immenso mercato globalizzato dove la merce non conosce alcuna limitazione, anzi i lavoratori stessi sono trattati come merce. Il godimento lobotomizzato sul consumo è assicurato ma, mentre si riducono sempre più i tempi di lavoro per la produzione degli oggetti che ci circondano, il lavoro è sempre più precario e senza diritti, e i ricchi sempre più ricchi. Dal “nasci, produci, consuma e crepa” si sta arrivando al “nasci, consuma e crepa” nella girandola di una società fatta di nuovi schiavi con redditi di cittadinanza, e con una struttura di pensiero unico totalizzante in cui governeranno degli algoritmi. Oggi la scelta è tra accumulazione di enormi ricchezze per pochi o lavorare tutti, molto poco, molto meglio e con una redistribuzione di questa enorme ricchezza. Al bivio c’è ancora la rivoluzione. In tal senso, il lascito del 1917 è molto più istruttivo e moderno del 1968.

 

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